L’Europa vive di regole. Fiscal compact, 3%, pareggi di bilancio: da decenni l’Italia osserva regole diverse da quelle che potrebbero far funzionare meglio il nostro modello d’impresa.
Premesso che un sistema economico è concepito dall’uomo, non ne esiste uno migliore in assoluto, ma solo quello che un Paese decide di adottare sottostando alle sue regole.
Il nostro modello di piccole e medie imprese con la loro scarsa capacità di ottimizzazione dei processi ha garantito però effetti importanti sul reddito pro capite e sulla sua redistribuzione nel territorio e ha potuto competere nel mondo attraverso la forma dei distretti, nati grazie alle tante imprese che si sono specializzate partendo dal medesimo humus di cultura e di mercato. Ogni azienda era ancorata al territorio, ‘sprecava’ più risorse anche per valorizzare il lavoro di dipendenti che non erano sostituibili, studiava i propri asset su un periodo di tempo più lungo, insomma, tutto il sistema con le regole delle piccole e medie imprese funzionava molto bene. Nel momento in cui ci si è ritrovati a globalizzare l’economia, nel caso dell’Europa si è scelta la matrice tedesca in base alla quale l’efficienza era garantita dalla grande azienda in cui entrava il ferro e usciva l’automobile. In Italia, il ferro entrava in una fabbrica per essere fuso per poi passare in un’altra ed essere trasformato in lamina, per poi finire nella fabbrica che stampa la lamiera e infine in carrozzeria: questo è il distretto.
Il modello tedesco è quello più congeniale alla Germania ma quando l’Italia è entrata in Europa è stata condizionata a prenderlo come riferimento: responsabilità nostra o degli altri? Così è andata e abbiamo sposato un modello non nostro, disintegrando quello che funzionava per costruirne uno nuovo che non decolla ancora dopo venticinque anni, guardando alle performance a livello industriale.
C’è da chiedersi, anche alla luce dell’economia circolare e della redistribuzione del reddito che si è polarizzata rendendo i ricchi più ricchi e i poveri più poveri, se non sia il caso di riflettere per capire cosa sia meglio per noi.
In più sottolineo che la resilienza del singolo Stato si è ridotta perché irrigidendo il modello dell’efficienza basata sulla grandezza e il cambio della moneta, le produzioni si sono spostate nei Paesi in cui era presente un determinato pezzo della filiera con la disponibilità di manodopera a basso costo. Questo ha impoverito e reso poco resiliente il sistema perché, per esempio, se c’è bisogno di mascherine in Italia, e nessuno ha trovato conveniente con queste regole farle in Europa e le si fanno fare tutte in Cina per poi commercializzarle, nessuno le ha.
Alle Pmi mancano le regole giuste per quel taglio di impresa: se vogliamo rimanere in questa Europa dobbiamo rendere le regole più adatte al nostro sistema altrimenti destinato a morire. Non esiste un modello migliore di un altro ma ecosistemi che evolvendosi continuano a prosperare: nel momento in cui si rende il modello uniforme basta uno stress esterno o interno e non resta più niente.
Oltre a parlare di Recovery Fund è ora di capire quali modelli di sviluppo si possono ipotizzare e, sulla scorta di quello che è successo in questi anni, se ‘piccolo’ è meglio.
Invece, la politica italiana ha inserito il ‘pilota automatico’ e non ha mai detto di no all’Europa o mediato in altro modo: è rimasta in una comfort zone con conseguenze inevitabili per il sistema Paese.
PAP20