In questi anni Gianni Previdi ha conosciuto tanti e diversi imprenditori, manager, operativi, persone dotate, di fatto o potenzialmente, di genialità, creatività, attenzione al fattore umano, plasticità mentale insieme a una sana pragmaticità e radicato buon senso. A lui, carpigiano, che dagli Anni Ottanta opera nel campo del Management & Information Technolgy, Business Innovation Advisor e trainer della Business School Palo Alto di Milano, la redazione di Tempo ha chiesto di guardare al tessuto economico locale e, in particolare, alle piccole e medie imprese. L’analisi è lucida e non indulge nel ricordo del passato ma proietta con fiducia al futuro chi ha consapevolezza dell’urgenza al cambiamento e all’innovazione. C’è una frase di Brilliant che Previdi riporta come monito prima ancora di iniziare l’intervista: alcuni cambiamenti sono così lenti che non te ne accorgi, altri sono così veloci che non si accorgono di te.
La situazione è difficile per tanti imprenditori ma per chi lavora nel settore moda è ancor più difficile. Come vede il momento in particolare per le aziende del tessile abbigliamento di medie/piccole dimensioni?
“Tralascerei il tema della pandemia, ancora tutto da decifrare in ordine agli impatti strutturali economici e sociali a medio-lungo periodo, ma vado dritto al punto della questione che era drammaticamente presente anche prima della crisi pandemica e che riflette la fragilità di buona parte del tessuto imprenditoriale, in particolare le PMI che presentano tipicamente (senza fare erronee generalizzazioni) alcune comuni caratteristiche che possiamo individuare sinteticamente così: sottocapitalizzazione, insufficiente se non proprio assenza di managerialità, autoreferenzialità. Va anche detto che per le imprese che operano in Italia e a maggior ragione per le PMI, l’asfissiante pressione fiscale e burocratica e la difficoltà all’accesso al credito sono certamente fattori che tendono a soffocare l’iniziativa imprenditoriale. Le PMI, come ho verificato nella mia attività di coach, hanno potenziale ma spesso non dispongono di consapevolezza, di visione e delle leve concettuali e metodologiche per fare il salto verso una vera innovazione di valore, sono autoreferenziali, chiuse nella loro storia imprenditoriale e nel loro settore tradizionale, e attendono passivamente che passi la tempesta perfetta. Ma veniamo in particolare alle aziende del mondo fashion e lasciamo sullo sfondo il tema della pandemia, provando a fare alcune considerazioni. In una cornice caratterizzata dalla iper-competitività dettata dalla inter-connettività dei mercati su scala mondiale grazie alla innovazione tecnologica (I&CT), dove il cliente (oggi critico e ben informato) si presenta in modo multiforme con diverse soggettività, espresse nei più disparati luoghi sociali (store tradizionali, social media, siti e piattaforme di e-commerce), il business model declinato nella multicanalità ben orchestrata può rappresentare per il settore fashion il nuovo paradigma per intercettare le nuove dinamiche sociali del desiderio di emozioni e di esperienze dei potenziali clienti, e quindi a far arrivare il valore del capitale investito il più lontano possibile. Nello scenario iper-competitivo del fashion system, infatti, più che in altri settori industriali, il brand sconfina rispetto al “valore d’uso” intrinseco dei prodotti (i prodotti della moda sono prima di tutto “segni” in quanto veicolano e anticipano tendenze sociali, più che coprire “funzionalmente” un corpo) per sviluppare il proprio “racconto” nei territori dell’immaginario nei quali i valori del design e delle tendenze culturali sono predominanti se non discriminanti. Dentro questi territori (luoghi sociali) l’impresa potrà sviluppare il proprio “racconto”, trasmettere i propri asset multi-valoriali, intercettare desideri ed emozioni direttamente dai e con i potenziali clienti. Ma attenzione: tutto ciò in un rapporto paritetico dove il brand non si arroghi a sé il diritto di “parlare” a scapito di un cliente passivo, ma sappia sostenere col cliente stesso un dialogo alla pari, sappia in buona sostanza “ascoltare”, avrà molte cose da imparare! Certo, quanto detto è più appannaggio delle aziende medio-grandi che hanno un rapporto diretto col cliente finale o si relazionano con le grandi reti distributive; la cosa è diversa per le PMI tipicamente terziste che operano nell’indotto. E qui si inserisce il dilemma. Molte di queste imprese (a volte micro-imprese o artigiani) hanno gran parte del loro conto economico basato su pochi clienti. Sorge allora una riflessione: le PMI hanno la consapevolezza di fare innovazione per accreditarsi come innovatori verso i loro clienti business a parco, agganciare nuovi clienti, entrare in nuovi settori, fare branding? O ancora pensano di restare passivamente ad aspettare che i loro clienti inviino inerzialmente gli ambiti ordini come nel passato? E se un loro cliente importante interrompe la relazione con il suo fornitore, quest’ultimo è conosciuto fuori dalla sua tradizionale filiera per acquisire velocemente altri clienti?”.
Che ne pensa del Made in Italy?
“Il Made in Italy in effetti possiamo definirlo come un meta-brand che nella percezione dei clienti esteri racchiude i noti valori (a volte ingannevoli, va pur detto) di design, qualità, estro, creatività che mi piace dire sono una eredità che ci portiamo con noi dal glorioso Rinascimento italiano. Ma questo meta-brand è auto-sufficiente in quanto tale per la competitività sui mercati internazionali? Credo proprio di no”.
C’è una cultura imprenditoriale sufficiente per “guardare al proprio business uscendo dagli schemi – come lei scrive in Innovation Now – e per esplorare nuovi confini”? Che ne pensa del concetto di distretto?
“Molte PMI sono ancora ancorate alla loro storia e tradizione imprenditoriale, in certi casi veramente gloriosa, ma che a volte le condanna a guardare con lo specchietto retrovisore. Nelle imprese familiari il delicatissimo processo di cambio generazionale o della commistione tra interessi di famiglia e interessi aziendali, spesso generano confusione organizzativa, stalli decisionali dovuti a pericolosi e imbarazzanti attriti tra i componenti della famiglia imprenditoriale. Si rileva scarsa attenzione alla valorizzazione dei propri collaboratori, spesso relegati alle loro circoscritte mansioni ripetitive, esclusi dalla possibilità di proporre idee, dove i percorsi di formazione e aggiornamento sono quasi inesistenti. Predomina una mentalità autoreferenziale che non favorisce forme di aggregazione (a vario titolo) di filiera e che condanna le PMI italiane alla patologica non crescita dimensionale, insieme ad una insufficiente attenzione alle dinamiche di mercato e dei nuovi trend emergenti nei comportamenti di acquisto dei clienti di oggi, diversi dal passato. Si nota una scarsa cultura al marketing strategico, in genere il marketing è solo di mera natura operativa (catalogo prodotti, gestione fiere, listini…). E infine ci si focalizza alla sola innovazione di prodotto (quando la si fa, spesso solo incrementale e non di rado brutalmente copiata), quando le nuove dinamiche invocano anche possibili nuovi modelli di business, nuove forme di relazione con i clienti finali, nuove modalità di presidio dei canali commerciali diretti e indiretti, possibili forme di disintermediazione per riappropriarsi di quote di marginalità e soprattutto di maggior conoscenze sui clienti finali. Detto ciò, è evidente che si deve fare ancora molta strada in termini di una cultura imprenditoriale aderente alla complessa contemporaneità. Ma è un percorso che richiede di farlo insieme tra le diverse realtà nel territorio. Da soli nei mercati iper-competitivi internazionali non si va da nessuna parte, sia ben chiaro. Da quando nel secolo scorso si sono fatti studi (da Prodi a Brusco e perfino dal mitico Porter) sulla dinamicità dei distretti in Italia va detto che molte cose sono cambiate. Personalmente ho qualche perplessità oggi a definire esattamente cosa è un distretto. Forse meno per quello sassolese della ceramica, del biomedicale mirandolese, della meccatronica reggiana, del packaging di Bologna e Imola, del food parmense, etc. Mi ricordo che a Carpi esisteva il distretto delle macchine per la lavorazione del legno, ora praticamente scomparso. Insomma il fatto che in un certo territorio vi insistano aziende che fanno le stesse cose fa di questo un distretto? E’ solo la omogeneità della tipologia di produzione che fa di un territorio un distretto? Siamo sicuri che le aziende di quello che viene identificato come distretto, tra loro e insieme all’indotto dei terzisti (che sono la stragrande maggioranza), formino una filiera sinergica e collaborativa, strutturata, che generi vere economie di filiera grazie anche al vantaggio di prossimità territoriale e di competenza? Mi piacerebbe discutere più approfonditamente di questo in ordine al distretto carpigiano del tessile-abbigliamento e dintorni, anche alla luce di come si stanno ridisegnando le logiche di delocalizzazione dei processi produttivi in Paesi con minor costo del lavoro a lungo praticate dalle aziende.
A tal proposito farei notare un fatto interessante. Alcune analisi recenti hanno evidenziato come la pandemia stia stimolando il processo di reshoring. Secondo questa analisi (articolo di Roberto Da Rin apparso sul Sole 24 Ore nel mese di agosto 2020) sono già 175 le imprese italiane che hanno deliberato il rientro di alcuni processi produttivi, predisponendosi nel medio-lungo periodo più resilienti e reattive ai cambiamenti esterni. Le stesse istituzioni europee hanno indicato come i processi di reshoring potranno contribuire fino al 20% del PIL europeo. In Giappone il governo ha stanziato finanziamenti fino al 70% alle proprie PMI per il reshoring delle produzioni di componenti sanitarie (mascherine, camici, device medicali, etc.). Anche su questo fenomeno del reshoring sarebbe interessante capire se e come avrà un impatto nelle imprese che operano nel settore di cui stiamo discutendo”.
Quale ruolo ha il contesto? Quale è più favorevole per l’innovazione? Si può fare da soli o meglio in sinergia? Quanto è importante fare sistema in questo percorso? Come vede Carpi?
“Ne è passato di tempo da quando negli Anni Sessanta e Settanta il modello delle “lavoranti a domicilio” veniva studiato anche dalle università. Era un modello di economia diffusa, si direbbe oggi a rete di valore, che peraltro ha contribuito al reddito di tante famiglie carpigiane. Poi tutto è evaporato nel giro di pochi anni, dissipando quella cultura e competenza di prodotto. Competenze che, solo in minima parte, sono state assorbite in realtà industriali più strutturate o hanno fatto nascere nuove iniziative imprenditoriali di ampio respiro. Purtroppo va rilevato che, a parte alcune (poche) realtà di dimensione industriale e internazionale, abbiamo ora una pletora di realtà imprenditoriali piccole e polverizzate, isolate in un indotto (che vede anche protagonisti imprenditori asiatici) che di fatto vive alla giornata, dove lì la competizione di settore è basata non sul valore, ma sullo sconto disperato, sui pagamenti dilazionati oltre il dignitoso. In sostanza assistiamo ad una economia territoriale che non ha visione strategica di settore, che vive di sporadiche e isolate iniziative di supporto. Certo, sono lodevoli le iniziative come quelle di Carpi fashion system, così come lo sono i percorsi formativi proposti, ma che sono principalmente orientati alla dimensione “tecnica” di prodotto. Credo invece che oltre a queste iniziative sia ancor più importante erogare oggi momenti formativi e contaminanti (seminari, workshop, o altri format) orientati alla generazione di nuove strategie di marketing, nuovi modelli di business, nuove modalità di disegno di percorsi per fare innovazione di valore. Senza dimenticare il tema importante della cultura manageriale da una parte e della convinta valorizzazione delle persone che operano nelle organizzazioni. Ciò che voglio dire è che serve generare una vera e diffusa cultura all’innovazione e alla managerialità, andando anche oltre agli storici confini di settore, con la curiosità di intercettare trend ed esperienze anche in altri settori di business per disporre di idee e spunti da declinare nel proprio settore, in certi casi anche per fare il “salto di specie” in altri settori promettenti. Poi anche acquisire la consapevolezza dei nuovi paradigmi offerti dalle tecnologie su cui investire convintamente per adottare asset digitali che siano abilitanti lungo la catena del valore, interna ed estesa. In questo quadro credo sia poco credibile oltre che poco efficace la politica degli incentivi (ad esempio voucher di poche e misere migliaia di euro, per intenderci) erogati dalle Istituzioni (nazionali, regionali o locali) per stimolare ad esempio l’implementazione di sistemi di e-commerce: il tema non è la tecnologia, che troviamo in abbondanza e a costi abbordabili oggi da qualsiasi impresa che sia minimamente strutturata, ma ancor prima serve generare una cultura all’innovazione e alla managerialità come detto prima, grazie alla quale poter fare vera e strutturale innovazione che veda le tecnologie digitali quale fattore abilitante. Infine è necessario che le Istituzioni locali, in sinergia diretta con le imprese (inizialmente quelle guidate da imprenditori “illuminati”) e altre realtà radicate nel nostro territorio, si facciano alcune domande strategiche: che modello di sviluppo sistemico la realtà carpigiana del settore “moda e dintorni” vorrà essere entro alcuni anni? Che iniziative si devono mettere in campo per mettere concretamente a terra il modello? Di quali competenze si necessita, di processo, di prodotto, digitali, manageriali, di design, di business e marketing design? Come si vorrà comunicare ai mercati internazionali questo modello e come nutrire le relazioni in modo sistemico e non sporadico con i questi mercati? Ultima ma non meno importante domanda: si dispone della maturità imprenditoriale per fare squadra, realizzare un concreto hub di rete, di competenze, di innovazione a 360°, di formazione, di comunicazione a favore delle imprese dentro questo hub? Non ho avuto il piacere di conoscere direttamente l’iniziativa Carpi fashion system ma mi pare possa essere una ottima base su cui sviluppare il percorso, senza inventarsi altre strutture per non cadere nel tipico vizietto tutto italico”.
Lei appartiene alla Scuola di Palo Alto. Che cos’è?
“Nata a Milano nel 1991 è oggi la principale business school italiana non accademica, riconosciuta da anni per qualità della docenza e vicinanza al mondo dell’impresa. Oltre a un’offerta formativa di oltre 300 corsi in aula, la Scuola di Palo Alto propone interventi ad hoc per le aziende, organizzazione di convention, team building, consulenza aziendale, convegni, attività di coaching, programmi di sviluppo personale per particolari figure professionali, strumenti di assessment, consulenza digital e metodologie d’intervento esclusive a supporto di qualsiasi realtà organizzativa. Quest’anno è partita l’iniziativa Palo Alto Academy, una originale offerta di contenuti on-line di alto valore (oltre 50 su diverse tematiche di business) fruibili con abbonamento (modello Netflix) dove il partecipante può usufruire dei contenuti live programmati, con una durata massima di 90 minuti, o vederseli comodamente in differita quanto vuole stando in ufficio o a casa. Questa iniziativa è stata progettata proprio per portare le competenze dei docenti ed esperti della business school dove vi sono imprenditori e manager che in particolare in questi momenti difficili non possono assentarsi dalla propria sede aziendale. Devo dire che siamo molto soddisfatti in quanto già ad ora abbiamo avuto molta adesione e apprezzamenti sia sul format che sul valore dei contenuti”.
Detto da lei sembra praticabile. Quanto lo è davvero?
“Premetto che posso dare solo alcune indicazioni di principio, il disegno e il piano d’innovazione nascono dopo che si è fatta una profonda e umile immersione dentro il business model di ciascuna azienda. Posso però dire che per arrivare a fare un vero “salto di specie” le aziende della moda che vogliono competere su scala internazionale dovrebbero a mio parere ben metabolizzare alcuni ineluttabili aspetti relativi alla co-creazione dei processi di branding (tra l’azienda e i business partner); relativi alla capacità di realizzare adeguate forme di “customer experience” e nuove forme di engagement con i clienti finali, cioè in sostanza saper leggere la “mente sociale del cliente” e non solo il momento della transazione d’acquisto; relativi alle intriganti connessioni tra il mondo della moda ed altri linguaggi della creatività (design) e dell’arte e ad esempio, perché no, prendendo ispirazione dalla biomimesi (in sostanza il trasferimento dei costrutti biologici dal mondo naturale a quello degli artefatti umani; insomma, mimare quanto già fa la natura); intercettare i trend emergenti nel mainstream come la crescente attenzione alla ecosostenibilità, all’economia circolare, anche curiosando le innovazioni in altri settori di business; relativi all’efficacia dei differenti modelli di distribuzione, supportati inevitabilmente dalle piattaforme digitali per le funzioni di buying, merchandising, e-business; relativi alle opportunità offerte dalle nuove tecnologie di rete che possono permettere un dialogo tra impresa e cliente nei diversi canali di contatto tra questi due soggetti. In sostanza sta emergendo un’evoluzione del fashion system, nel quale ciò che prima (fino ai primi anni novanta del secolo scorso) era lineare e relativamente pianificabile (produzione – canale di distribuzione – vendita), ora non lo è più e i soggetti sono “mescolati” tra loro e partecipano (in quanto di fatto stakeholders) sempre più in modo trasparente alla creazione di valore. Le aziende della moda, dunque, dovranno a mio modesto avviso: sapere ben coniugare gli aspetti marketing e comunicazionali (social brand marketing) attraverso le nuove grammatiche social e forme di advertising intelligence (quindi non invasive adottando logiche ad esempio di inbound marketing); saper gestire e orchestrare ogni relazione di business cercando di evitare pericolose “cannibalizzazioni” (retail tradizionale vs. e-commerce); tutto ciò reso possibile grazie alle tecnologie digitali disponibili (CRM, E-Business, Business intelligence, Store intelligence, IoT applicato nei processi di produzione, per arrivare a inserire etichette intelligenti nei capi di un certo valore per presidiare il fastidioso fenomeno della contraffazione, forse in futuro adottare le piattaforme di blockchain all’interno di una filiera – smart contract – e in relazione al mercato per la trust generation), contestualmente alla necessaria semplificazione dei processi operativi per essere veloci e reattivi; infine, per le aziende che hanno propri punti di vendita, ridisegnare e coordinare ogni luogo/spazio di contatto col cliente finale in un avvincente (alto engagement) concept di store fisico (facendo ad esempio evitare le frustranti file nei delicati momenti di pagamento alle casse ai clienti con pagamenti via App del brand o contactless, inserendo personale qualificato che sappia essere un consulente verso il cliente, non un grigio commesso cassiere), sia esso lungo un corso centrale di una città che dentro le piattaforme digitali (dove si comunica non solo il prodotto e il prezzo, ma i valori dell’azienda, come interpreta la società e anticipa le tendenze, dove la navigazione sulle funzionalità del portale sia intuitiva, generi empatia, emozioni e fiducia anche attraverso chat o chatbot, dove la conversione dal carrello al pagamento sia semplice e trasparente). Anche qui va sottolineato che quanto indicato è abbordabile per le imprese maggiormente strutturate (anche finanziariamente), per le micro-piccole imprese che semmai operano come terziste il tema è avere comunque la consapevolezza di come stanno cambiando i paradigmi culturali e tecnologici, essere consapevoli che anche per loro è necessario fare innovazione, che è praticabile adottare le tecnologie digitali in ambito di efficienza (e vedrete che sempre più si avanzerà verso l’integrazione digitale dei processi dentro una filiera tra il cliente business e i suoi partner di fornitura di componenti o semi-lavorati) e di relazione con i mercati anche esteri. Anche le PMI hanno oggi la possibilità di adottare logiche e tecnologie per fare business, per fare branding e digital marketing. Sul mercato abbiamo piattaforme digitali che permettono anche alle PMI di accedere ai servizi innovativi a costi di servizio praticabili (quindi senza fare immobilizzazioni, dunque passare dalla logica Capex a quella Opex come si dice in gergo finanziario). Tendenzialmente ciò che intravvedo e suggerisco quindi alle imprese, indipendentemente dalla dimensione, è adottare dei modelli operativi e di business che sappiano sfruttare queste piattaforme digitali, anzi essere loro stesse piattaforme dove estendere la propria catena del valore integrata ad esempio con i propri business partner, fino al cliente finale. Altrettanto importante sarà per l’azienda disporre di un management dinamico che sappia ogni giorno chiedersi con umiltà e curiosità: cosa suggeriscono (cogliere i segnali deboli) i miei business partner e i miei clienti finali? Solo così si potrà intraprendere un percorso di innovazione di valore. In fondo il mio mestiere in diversi settori dell’innovazione è quello di estrarre il valore dal potenziale inespresso delle imprese, aiutandole a osservare in modo non convenzionale le dinamiche dei mercati e trasferire loro la corretta quanto semplice metodologia di business design per disegnare il loro percorso verso l’innovazione, ma che generi valore strutturale. Ma prima di tutto si deve rispondere alla seguente domanda che in genere faccio durante i miei primi incontri con le imprese: Abbiamo la consapevolezza dell’urgenza al cambiamento e all’innovazione? Solo in caso affermativo avrà senso procedere convintamente, altrimenti qualsiasi idea di innovazione suggerita susciterà la classica quanto deprimente risposta: Perché cambiare? Abbiamo sempre fatto così“.
S.G.