Sin dalle origini il cinema cerca di coniugare arte e spettacolo, industria e libertà espressiva. Se poi si tratta di avvenimenti storici decisamente impegnativi come ad esempio la Shoah il dibattito su come e cosa mostrare assume un rilievo particolarmente importante. La domanda fondamentale è se sia giusto proporre una ricostruzione inevitabilmente finta della realtà dei campi. Quindi quali parole e immagini siano adeguate a raccontare l’indicibile. Iniziamo questa sintetica panoramica dalla fine degli scorsi Anni ’30. In Europa imperversa un film tedesco di cupa propaganda antiebraica: Suss l’ebreo di Veit Harlan, premiato alla Mostra di Venezia, che dipinge la figura di un infido ebreo di un tranquillo paese tedesco che riesce con trame e inganni a dominare i suoi concittadini germanici. Perfetto per alimentare l’odio e la violenza.
Chi invece capisce subito come stanno le cose è quel genio di Charlie Chaplin che si permette una feroce satira del nazismo e di Hitler realizzando nel 1940 Il grande dittatore. A maggio 1945 la guerra si conclude e dopo l’Armata Rossa che libera Auschwitz il 27 gennaio, anche gli alleati raggiungono altri campi. Ciò che vedono è inimmaginabile, ma ben documentato, perché al seguito delle truppe ci sono operatori cinematografici. Il materiale raccolto viene mostrato negli Stati Uniti attraverso i cinegiornali, riscuotendo un notevole interesse di pubblico. A fine maggio però tutti i filmati sui campi scompaiono dagli schermi. Un nuovo ordine mondiale sta per prendere corpo, anche in seguito agli accordi di Yalta del febbraio ’45. La Germania sta per essere divisa in due: la Repubblica Democratica Tedesca alleata dell’Unione Sovietica e la Repubblica Federale Tedesca nell’orbita occidentale. Cosicché per favorire l’inserimento della RFT nel blocco capitalista si preferisce non proseguire con la visione degli orrori del nazismo. Il nuovo nemico adesso è il comunismo: comincia la cosiddetta Guerra Fredda. Così anche Memory of the camp montato da Alfred Hitchcock resta nel cassetto per riapparire solamente nel 1984 al Festival di Berlino, e solamente nel 2015 approda in televisione. (In Italia viene trasmesso da Rete4 il 27 gennaio 2016).
Dopo la Liberazione, il Neorealismo Italiano è il fenomeno cinematografico più importante a livello mondiale. Ma a parlare di Shoah e di ebrei è però un regista del regime sconfitto: Goffredo Alessandrini. Il suo film L’Ebreo errante del 1948 è interpretato da Vittorio Gassman. Si racconta la vicenda dell’ebreo errante attraverso il mito e la redenzione in chiave forse troppo cattolica. Il personaggio si muove nello spazio e nel tempo, dalla Palestina di Cristo alla Parigi occupata e infine nella deportazione nazista come espiazione per il “deicidio”. Molto interessante e misconosciuto. Segue un silenzio pressochè assoluto fino al 1955 quando Alain Resnais vuole presentare a Cannes il suo documentario Notti e nebbie. Immagini che mostrano i ruderi di Auschwitz con lente carrellate che evidenziano l’abbandono. Girato a colori non ci parla dello sterminio, solo muri e baracche come segni lasciati nella memoria. Ma all’ultimo momento la direzione del Festival ritira il film “per non turbare i tedeschi” e il regista ironizza: “non sapevo che il governo nazista avesse una rappresentanza al Festival di Cannes”.
Nel 1960 alla Mostra di Venezia Gillo Pontecorvo presenta Kapò, storia di una detenuta che vittima di vessazioni decide il suicidio lanciandosi contro il filo spinato elettrificato della recinzione. La scena, che il regista filma con un breve carrello fino al primo piano dall’attrice, suscita la feroce reazione di Jacques Rivette, all’epoca critico dei Cahiers du Cinema. Secondo lui quel movimento di macchina ha spettacolarizzato la morte. Pontecorvo si difende dicendo di aver solo voluto mostrare l’intensa espressione dell’attrice. Nel 1961 Stanley Kramer nel suo film sul processo di Norimberga Vincitori e vinti recupera alcune immagini dei campi nascoste dal ’45 e le inserisce come prove dell’accusa. Ed è così che il cinema si vede riconoscere il proprio ruolo di documento storico. Nello stesso anno a Gerusalemme inizia il processo ad Adolf Eichmann, molto seguito dal pubblico internazionale attraverso la televisione, e Hollywood da allora, può interessarsi con profitto della Shoah. Ma quasi contemporaneamente sorge il dibattito che si trascina fino ai giorni nostri su cosa e come il cinema possa mostrare. Da una parte i cineasti e l’industria che costruiscono storie, dall’altra posizioni rigorose che reclamano la discrezione assoluta.
Il regista francese Claude Lanzmann sostiene l’iconoclastia più intransigente: nel 1985 realizza Shoah, dove i campi non si vedono mai. Le sue dieci ore di narrazione sono riservate a una lunga serie di testimonianze di ex prigionieri ripresi prevalentemente in primo piano. Polemizza anche con Spielberg per il suo Schindler’s list. Si ripropone la storica contrapposizione: il cinema come industria ha bisogno di spettacolo, come arte ha bisogno di purezza creativa. A mio parere nella vastissima filmografia si trovano esempi di intelligente compromesso. Ne cito due: Senza destino di Lajos Koltai (Ungheria D GB 2005) tratto dal romanzo autobiografico del premio Nobel Imre Kertesz (Essere senza destino – ed. Feltrinelli). Davvero struggente e “bellissima” la sequenza, sottolineata solo dalla musica di Ennio Morricone, di una adunata notturna. Corpi fragili straziati dal vento come fili d’erba in un prato d’autunno. Immagini e musica che mettono l’unica estetica consentita al servizio della sofferenza e della verità. E infine Il figlio di Saul di Laszlo Nemes (Ungheria 2015) che insegue il suo protagonista quasi sempre in primo piano lasciando fuori campo l’orrore delle camere a gas, che ogni spettatore sa essere tutto intorno. Il regista non vuole e non ha bisogno di mostrarlo. Una rivincita artistica, forse una indiretta risposta a Lanzmann.
Ivan Andreoli