Nel volume L’invenzione del maiale, da mito a gastronomia, Luciana Nora del Centro Etnografico approfondisce per conto del Comune di Carpi la storia della millenaria tradizione della suinicoltura.
“In un tempo remoto, l’allevamento dei suini – si legge nel testo – era allo stato brado e semibrado; più vicino a noi, specialmente con il diffondersi della mezzadria, è avvenuto con modalità domestiche; quindi, sfruttando e combinando tutte le risorse disponibili, prima fra tutte l’abbondanza di siero presso i caseifici, la suinicoltura ha iniziato ad assumere i caratteri di impresa sempre più specializzata, dando origine a ricchi mercati bestiame, commercio di carni fresche, lavorate, insaccate e, di conseguenza a salumifici la cui eccellente produzione ha saputo affermarsi a livello nazionale, europe ed extraeuropeo.
(…) Nel 1907, per legge emanata il 14 luglio, venivca imposto a livello nazionale il censimento del bestiame e, riguardo a Carpi, si ebbero i seguenti dati: verri 26, scrofe adoperate per la riproduzione 1138, maschi e femmine da ingrasso 1740, maschi e femmine da due mesi a un anno 896, lattonzoli sotto i due mesi 2738 per un totale di 6538 porci.
Attualmente si calcola che nelle sole province di Modena e Reggio Emilia il numero di capi
allevati si aggiri intorno ai 4 milioni e, ovviamente, il riflesso economico derivante da questa attività a cui occorre aggiungere quello della lavorazione e vendita delle carni è notevolissimo
La produzione di salumi in Carpi ebbe a farsi industria importante con la Ditta Giberti & Borelli che prese avvio nel 1927, quando i due fondatori, entrambi dipendenti da La Fondazione Silingardi di Modena, si licenziarono per mettersi a produrre in proprio.
Amos Ferrari, dipendente della Ditta Giberti & Borelli, nel redigere una memoria scritta della sua esperienza, afferma: “[…] Gli operai di un salumificio dovevano essere in possesso di una buona dose di coraggio per affrontare la macellazione dei suini, forza fisica e volontà di lavorare. Il lavoro di un salumificio iniziava nel reparto macello, in cui venivano allora macellati settecento maiali al mese. Il lavoro veniva svolto a catena, dove operai svelti ad usare il coltello, sistemati nei posti chiave, trascinavano anche gli operai meno forti ad un ritmo di lavoro serratissimo. Ci voleva coraggio e forza, perché uccidere più di centocinquanta maiali in tre ore, con i mezzi di allora, non era impresa semplice. I maiali venivano legati alle caviglie e sollevati da una gru, dove un operaio dava loro una coltellata al cuore, mentre un altro, con una bacinella, cercava di raccogliere tutto il sangue possibile che sgorgava copioso dalla ferita mortale. L’odore del sangue e degli escrementi, delle grida di paura e di dolore dei maiali, i quali, intelligenti, capivano la loro sorte, diventavano insopportabili. La nebbia, formata dal vapore dell’acqua bollente contenuta in una grandissima vasca di legno, dove i maiali ancora in agonia, venivano immersi per la loro pulitura e raschiatura delle loro setole, era fitta e avvolgeva tutto. Per tre ore, in quel reparto, avvenivano davvero scene apocalittiche. Se si fosse potuto fare un video documentario di tutto questo, i vegetariani animalisti si sarebbero triplicati. Il suino dopo essere stato aperto, e liberato dalle viscere, veniva diviso in due mezzene da un operaio svelto e preciso che con pochi colpi di ascia, divideva il porco in due. Le viscere venivano portate nel reparto budelleria, dove bravissime ed espertissime donne le lavavavano, le raschiavano e quindi le sistemavano in vasche di cemento per la loro conservazione in sale o salamoia, tenendole divise in base alla tradizionale utilizzazione: la budellina serviva per l’insaccatura delle salsiccie; i cresponi per l’insaccatura dei cotechini e qualche tipo di salame; la filzetta e il budello gentile, per l’insaccatura dei salami che, in questo budello grasso, rimangono morbidi… Le mezzene, poste su un binario aereo, venivano spinte nel reparto disossatura carni, dove una ventina di operai svelti e capaci di usare gli affilatissimi coltelli, sezionavano le varie parti della mezzena. A quel punto le carni entravano nelle grandi celle frigorifere per il raffreddamento. Una volta raffreddate, venivano dirottate nei vari reparti per la preparazione degli insaccati…
(…) Tutti i salumieri di Carpi venivano a servirsi alla Giberti Borelli. Gardino che aveva la salumeria in Corso Alberto Pio allo scoperto, Lusetti, Corsi Ferruccio, Salvaterra, Ornello di Cibeno; prendevano la carne fresca, carne per fare i cotechini, qualche pelle di zampone, le budella per la salsiccia e i salami: il fiorentino per fare il salame di prima e anche con la filzetta, perché la salumeria la facevano loro. Loro avevano anche i maiali, avevano chi glieli allevava in campagna ma si servivano anche da noi.”
Gli anni Cinquanta, dopo la penuria alimentare subita sino alla fine dei Quaranta,
segnavano un incremento produttivo straordinario dell’industria salumiera. La Giberti Borelli poteva anche permettersi di crearsi una squadra ciclistica capitanata da Ercole Baldini che, tra il 1956 e il 1958, fu un “asso pigliatutto”: primatista mondiale del record dell’ora al Vigorelli di Milano, campione del mondo su strada per professionisti a Reims, maglia rosa al Giro d’Italia. Si poteva credere in un crescendo produttivo infinito. Sull’onda di un benessere diffuso, placata anche la memoria della fame, l’inizio degli Anni Sessanta, si caratterizzava per una significativa trasformazione del regime alimentare: dalla più economica carne suina, antico retaggio dell’economia e cultura rurale lasciate ormai alle spalle, si passava alla più costosa carne bovina. Il grasso maiale mal si addiceva a quelli che si stavano imponendo come i nuovi canoni estetici degli anni sessanta, incarnati da Twiggy. Si delineavano tempi durissimi per la suinicoltura e l’industria salumiera: entrambe dovevano ripensarsi e trasformarsi radicalmente per poter poi rilanciarsi e affermare che non ha mai fatto male una fetta di salame.
Il Salumificio Giberti Borelli, entrava in crisi negli anni ’60: La lotta delle maestranze per conservare quella realtà produttiva è stata un eccezionale esempio di resistenza, sotto molti aspetti assai simile a quella verificatasi presso la Magneti Marelli nell’immediato secondo dopoguerra: mesi e mesi di occupazione, supportati dalla solidarietà delle autorità civili e dell’intera città hanno avuto ragione. Il salumificio, fattosi prima cooperativa C.I.P.A., poi assorbito dalla C.I.A.M, è attualmente Italcarni, una delle più grandi e moderne imprese presenti sul territorio carpigiano, vantante una grande tradizione che ha potuto non disperdersi in ragione della continuità produttiva, garantita dalla tenacia delle più anziane maestranze che, dopo aver mostrato forza di resistenza e, successivamente, intraprendenza, gradualmente hanno ceduto la loro competenza professionale a quelle giovani subentranti.
È curioso che l’attuale modernissima sede dell’Italcarni sia a Migliarina di Carpi, proprio quel sito ove, come si apprende da un inventario dei beni fondiari dell’allora monastero di Santa Giulia, ancora nel Medioevo, vegetava la fitta foresta della Migliarina, tanto ricca di querce farnie bene allignate che, di sole ghiande, ad uno stato pressoché selvaggio, potevano pascolare e ingrassare almeno 4.000 maiali”.