A quando una carezza?

Daniela Malmusi, coordinatrice della CRA Sandro Pertini di Soliera e membro del comitato scientifico GAFA, ha accettato di condividere i suoi sentimenti di fronte a questa problematica del distanziamento fisico tra ospiti e familiari. Rubrica a cura di GAFA (Gruppo Assistenza Familiari Alzeimer).

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Nei mesi appena trascorsi , e tuttora , le RSA ( Residenze Socio Assistenziali ) e le CRA ( Case residenza Anziani ) sono state al centro dell’attenzione per molti motivi. Gli operatori e gli ospiti stanno ancora vivendo una situazione complessa e delicata fatta di molte limitazioni in nome della sicurezza.

Garantire agli ospiti la sicurezza e nello stesso tempo mantenere i legami  affettivi e sociali (altrettanto vitali)) è una sfida che abbiamo davanti e che richiede molte riflessioni.

Daniela Malmusi, coordinatrice della CRA Sandro Pertini di Soliera e membro del comitato scientifico GAFA, ha accettato di condividere i suoi sentimenti di fronte a questa problematica del distanziamento fisico tra ospiti e familiari.

La sua sensibilità dimostra come  all’interno delle Strutture è alta l’attenzione alla dignità della persona, ai suoi desideri , ai sui diritti.

 

Il Covid-19 ci ha cambiati.

Forse, come molti sostengono, i più dimenticheranno, appena potranno: la natura umana tende ad accantonare ciò che ricorda il vuoto e il silenzio.

Ma qualcuno non potrà.

Chi si misura ogni giorno con la patologia di Alzheimer che ha colpito un proprio caro, ha esplorato linguaggi e canali comunicativi impensati e sottovalutati, che hanno assunto un valore e un’efficacia prima impensabili.

C’è una comunicazione che passa imprescindibilmente attraverso le mani, un abbraccio, uno sguardo occhi negli occhi.

Con quel linguaggio non si poteva più parlare.

Per questo posso dire di aver assistito a un dolore sostanziato soprattutto di distanza.

Una distanza che differisce dalla lontananza poiché anche chi era presente, non poteva ‘dialogare’ e ‘restava fuori’. Quel vetro, quei metri che separavano i parenti dai loro cari, impedivano di entrare nella prossemica circoscritta di chi soffre di Alzheimer, lasciando soli il malato e il familiare.

Non era possibile entrare nel campo visivo del proprio caro, catturandone lo sguardo, agganciandolo e trattenendolo. Quello sguardo attraversava il vetro, ma anche ci vi era dietro, prima speranzoso, poi commosso, infine addolorato e sconfitto. Lo sguardo vagava senza posarsi. Occhi persi, occhi pieni di lacrime, occhi fiduciosi e poi delusi. Occhi pazienti e amorevoli.

Non era possibile stringere in un abbraccio un corpo che lo aspetta, trasferendogli calore, né accarezzare un volto che a quel tocco si accende. Non si poteva porgere il cibo, massaggiare le mani – magari con la crema dal profumo di una vita – sistemare i capelli.

Assistere impotente a questa necessaria prudenza, tanto protettiva, quanto dolorosa mi ha fatto riflettere su come l’assenza di contatto, di ‘quel’ contatto, rendesse soli malati e familiari.

Una solitudine che non aveva alternative, né c’era il modo per cercarne, inventarne, e che ha reso mute le persone, interrompendo un dialogo speciale.

La frustrazione di dover recidere quel filo, per garantire la tutela e la sicurezza, ha suscitato in me un sentimento conflittuale che mi ha fatta riflettere: la consapevolezza della grande responsabilità che ci investiva e il dolore provocato da quelle solitudini e mi sono domandata se davvero abbiamo fatto il possibile per coniugare queste esigenze all’apparenza opposte: sembra innaturale che per proteggere si debba distanziare.

 

 

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