Quando le parole non bastano

Rubrica a cura di Gafa - Gruppo Assistenza familiari Alzheimer di Carpi.

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Spesso i familiari che incontriamo ci riferiscono difficoltà di questo tipo: “Gliel’ho detto tante volte e non lo fa! Sembra che faccia apposta! Sì è proprio così… lo fa per farmi un dispetto, è sempre stato il suo carattere”.

Comunicare con una persona con demenza non è facile, richiede che il familiare impari nuove strategie: noi usiamo spontaneamente il linguaggio verbale e il ragionamento per dare informazioni o compiti, ora, con il proseguire della malattia questo canale di comunicazione diventa sempre più inefficace.

Può succedere quindi che il nostro messaggio non venga compreso o che venga compreso subito e poi dimenticato o che non sia possibile per il malato dare a noi un’informazione di ritorno e quindi esprimere il suo mondo interiore perché perde progressivamente la capacità di parlare in modo sciolto.

E’ per questo che le richieste che facciamo devono essere molto semplici: una per volta, non più di una, ancora meglio se con una domanda a cui rispondere sì o no o con un cenno del capo.

Anche quando ascoltiamo le informazioni di ritorno che il malato ci dà, dobbiamo lasciargli il tempo per trovare le parole, se non trova la parola proviamo a esprimere quello che ci sembra voglia trasmettere e poi con pazienza rifacciamo la domanda.

Comunicare tuttavia è molto più che parlare e ascoltare; coinvolge i gesti, il tono della voce, lo sguardo, il contatto di un abbraccio, di una mano… Dove la parola perde di senso può rimanere molto a lungo la capacità di cogliere emozioni e sentimenti che vengono espressi in altre modalità. Fondamentale per la comunicazione è stabilire e mantenere il contatto con gli occhi.

Il tono della voce spesso è più importante del contenuto, dobbiamo imparare a gestirlo: dev’essere rassicurante, accomodante, deve trasmettere protezione e sicurezza. Di fronte a un errore o a una dimenticanza o a una ripetizione (spesso estenuante) spontaneamente la nostra reazione è il rimprovero o la correzione; spesso questa modalità è inefficace o addirittura può causare ulteriore frustrazione perché il malato può soffrire rendendosi conto delle sue mancanze.

Un familiare, parlando ad altri familiari delle sue difficoltà, disse: “Una volta quando mio marito si comportava così, io mi arrabbiavo, adesso ho imparato e lo abbraccio”.

La persona malata spesso è ansiosa e disorientata proprio perché confusa: ha bisogno quindi di trovare in noi rassicurazione e protezione, fino a quando si può è meglio assecondarlo anche se le domande ci sembrano strane o fuori posto, l’importante è che il nostro comportamento gli trasmetta serenità.

E poi sorridere: sorridere e fare ironia, fin che si può, più che si può.

E se non ci riesco? E se perdo la pazienza?

Niente paura, domani si riprova: imparare a comunicare in modo efficace è frutto di allenamento (non si acquisisce una volta per tutte) ed è come andare in palestra. Il familiare, che conosce ogni dettaglio del suo caro, valutando le sue reazioni, impara pian piano quali comportamenti sono più efficaci e utili per il benessere di entrambi.

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