Sono 77, secondo gli ultimi dati a nostra disposizione, gli operatori che si sono ammalati di coronavirus all’Ospedale Ramazzini di Carpi. Una struttura che, nello tsunami che ci ha travolti, ha dimostrato ancora una volta tutta la sua inadeguatezza non solo sul fronte degli spazi ma, soprattutto, per la mancanza di protocolli adeguati. Che qualcosa non abbia funzionato è indubbio come sottolinea anche il dottor Giorgio Verrini, oggi riferimento cittadino di Azione, il movimento creato da Carlo Calenda.
“Mi pare ovvio: le direttive sono arrivate in ritardo, si è scelto di non adottare sin da subito il principio di precauzione e tutto questo per mancanza di una chiara catena di comando (il Direttore Generale, dottor Brambilla non si è mai fatto vedere), inoltre non si sono fatti propri gli allarmi lanciati da altri territori. Il Ramazzini è stato blindato con quattro giorni di ritardo rispetto alle strutture ospedaliere di Modena e Reggio Emilia: molte persone hanno continuato a frequentare i reparti (specialmente i Reparti di Medicina Interna) ad accedere alle diagnostiche e i numeri dei contagiati sono lì a dimostrare quanto è stato grave il ritardo decisionale”.
E, ancora, denuncia Giorgio Verrini, a Carpi abbiamo due Tac, “di cui una collocata all’interno di un container, a ridosso del Pronto Soccorso, in attesa dello smantellamento di quella vecchia ed è lì da ormai sei mesi. Con l’arrivo del Covid rappresentava un asso nella manica: si potevano creare due percorsi di diagnostica differenziati, dedicandone una solo ai sospetti e agli accertati covid positivi onde evitare di sporcare l’altra e invece non è stato fatto nemmeno questo. Perchè?”.
Oggi che le ospedalizzazioni sono in netta diminuzione, la sanità carpigiana si trova di fronte alla più complessa delle sfide: tornare gradualmente alla normalità, con la consapevolezza che dovranno essere garantiti percorsi separati per pazienti covid negativi e positivi dal momento che la convivenza con questo virus è ben lungi dall’essere finita.
Il Ramazzini sarà all’altezza? Il nostro vetusto ospedale sarà in grado di adempiere a questo compito assicurando la necessaria sicurezza per pazienti e operatori?
L’emergenza, la gravità e la novità della situazione causata dalla epidemia di SarsCov2 possono in parte giustificare quanto è avvenuto nella fase 1, ma in questi due mesi di lockdown c’era il tempo per preparare l’ospedale alla fase 2 e non è stato fatto nulla”.
Il contesto strutturale non aiuta, “i corridoi e le scale sono stretti, come si fa a mantenere il distanziamento fisico? Il metro di distanza te lo sogni. Non c’è alcuna separazione: perché, ad esempio, i malati sospetti covid non entrano dall’ingresso di Piazzale Donatori di Sangue mentre chi deve accedere alla diagnostica o ai reparti non passa per l’area bar? Speriamo che questo virus ci perdoni perché il ritardo col quale abbiamo gestito questa pandemia è davvero ingiustificabile. Per non parlare di come sono state utilizzate le case residenza anziani…”.
Un altro capitolo a cui occorre prestare la massima attenzione, aggiunge il dottor Verrini, è quello della vigilanza: “alcuni operatori hanno iniziato ad abbassare le difese, nell’illusione che il peggio sia passato e il virus in parte sconfitto. Non è così. I presidi di tutela personale devono essere indossati sempre e con la massima attenzione onde evitare ulteriori contagi. I direttori dell’ospedale e del distretto socio sanitario dovrebbero fare di tutto per monitorare, soprattutto in questa fase così delicata, i comportamenti degli operatori”.
Il sindaco Alberto Bellelli in un’intervista rilasciataci la scorsa settimana ha espresso il timore che il numero inferiore di visite effettuate unitamente al timore di avvicinarsi alle strutture ospedaliere crei un aumento di altre patologie. Condivide?
“In Pronto soccorso non ci va praticamente più nessuno per paura è quindi chiaro che si registrerà un aumento tra le altre patologie ma sono altre le questioni di cui dovrebbe preoccuparsi il nostro sindaco. Quel che vorremmo sapere è se i 90 milioni stanziati dalla Regione verranno spesi oppure no per costruire un nuovo ospedale. Li abbiamo già fisicamente in tasca? Qual è il programma per Carpi? Il vecchio ospedale è insalvabile e non ha retto all’impatto col coronavirus: dubito possa tenere nella fase due, quella della convivenza col virus. Come potrà assicurare percorsi separati se non c’è riuscito sino a questo momento? Qual è la volontà politica? L’Ospedale di Baggiovara, così come quello di Piacenza, diventerà il nosocomio covid di riferimento per la nostra provincia. A fronte di questo, Carpi verrà ulteriormente depotenziata e tutto verrà spostato verso Modena? Occorre stare molto attenti perché se l’attività del Ramazzini non riprenderà i valenti professionisti che nel corso degli ultimi anni hanno riqualificato il nostro ospedale se ne andranno altrove. E se i migliori se ne vanno, perché non sono disposti a restare in panchina anziché operare e fare il proprio mestiere, il livello di cura e di assistenza precipitano. Andiamo oltre la miope idea che 1 valga 1: non è così.
E, ancora: cosa diventerà il Ramazzini? A cosa si ridurrà? A un poliambulatorio? Bene, allora vorrà dire che ci concentreremo sulla medicina territoriale: qualcuno però parli. La politica faccia il proprio mestiere, prenda delle decisioni, dopodiché si potrà avviare un confronto serio”.
Una cosa è certa, il Piano di prefattibilità del nuovo nosocomio stilato dall’Ausl pre covid dev’essere rivisto alla luce dei nuovi eventi, non può certo limitarsi a replicare l’esistente…
“I nuovi ospedali devono essere completamente ripensati, con spazi modulabili. Mi domando se Carpi sia in grado di costituire un’entità autonoma di fronte all’avanzata delle città metropolitane. Modena ha due ospedali, una prefettura, l’università… non sarebbe più efficiente trasformare Carpi in una sorta di importante quartiere di Modena investendo sui collegamenti, magari attraverso la realizzazione di una metropolitana di cui si discute da tanto tempo? In questo modo si potrebbe pensare di realizzare qui un grande e qualificato centro di primo soccorso mentre del resto delle patologie si potrebbero fare carico le strutture ospedaliere modenesi”.
Più territorio: questo dev’essere l’imperativo, anche e soprattutto in considerazione del progressivo invecchiamento della popolazione e del conseguente aumento delle patologie croniche. In questa emergenza la medicina territoriale si è arricchita di vari elementi di novità a partire dalla telemedicina nelle case residenza anziani e presso il domicilio di alcuni pazienti. Una medicina del territorio forte consentirebbe all’ospedale di trattare solo le acuzie.
“Assolutamente sì. Rivedendo la rete ospedaliera e ridistribuendo i compiti si potrebbe evitare la costruzione di un nuovo ospedale in città e con le risorse risparmiate si potrebbero rafforzare i servizi territoriali. Mi chiedo: se davvero esiste la volontà di erigere un nuovo nosocomio, a cosa servirà la casa della salute? In caso contrario, una sola struttura di questo tipo non sarà sufficiente, occorrerà farne altre: più poliambulatori distribuiti sul territorio. E all’ospedale si andrà solo per avere diagnosi cardiologiche o oncologiche, due eccellenze del Ramazzini, e per accedere al Ps in caso di emergenza. Per il resto ci sarà Modena. Queste erano scelte da fare ieri. Siamo già in netto ritardo”.
Jessica Bianchi