La disparità di genere non è soltanto un’ingiustizia per le donne, discriminate rispetto al loro ruolo nella società, sul lavoro, nella carriera, e per l’uomo, inquadrato in uno stereotipo maschile che rischia spesso di rivelarsi una prigione, ma anche un costo per la società intera: è questo il fulcro della lezione magistrale che Chiara Saraceno, sociologa che da decenni si occupa di famiglia, educazione, mondo del lavoro e politiche di welfare, ha tenuto a Carpi nel corso del Festival Filosofia. “I modelli di genere rigidi riducono il raggio delle possibilità degli individui – ha spiegato la sociologa – ed essere ridotti a una categoria è il primo passo per la stereotipizzazione, che prelude alla discriminazione. Quando poi si è oggetto di discriminazione, non è così infrequente che si passi all’odio per la categoria marginalizzata”. Nel nostro Paese, sebbene negli ultimi quarant’anni si siano fatti dei passi avanti anche importanti, la strada è ancora lunga. C’è stato, per meglio dire, un andamento diseguale: “Se da un lato nell’istruzione si è chiuso il gender gap, e anzi il numero di donne che accedono a livelli di formazione superiore ha superato quello degli uomini, nel mercato del lavoro gli incarichi apicali, i ruoli di autentico potere restano invece, a partirà di titolo di studio, ancora decisamente sbilanciati a favore dei maschi, in un rapporto di 60 a 30”. Inoltre, la maternità è ancora causa di uscita definitiva dal mercato del lavoro per moltissime donne. “A questo si aggiunge un’enorme disuguaglianza tra le donne stesse a seconda della collocazione geografica, disegnando praticamente due Paesi differenti a seconda che si abiti al nord o nel sud”. L’uscita dal mercato del lavoro delle madri non è soltanto una perdita di competenze per la società, ma anche un serio rischio di povertà, sia per le famiglie che per i figli, dato che la povertà maggior parte dei bambini in povertà assoluta vive in famiglie monoreddito. “In Italia è poi più elevata che nel resto d’Europa la rigidità dei ruoli di genere. Gli uomini fanno meno lavoro famigliare delle compagne, ma non perché siano particolarmente crudeli, dato che su questo aspetto c’è, nelle coppie, abbastanza condivisione. Siamo insomma ancora immersi nella cultura del ‘lui mi aiuta’, del ‘mi aiuta molto di più di quel che faceva mio padre con mia madre’. Se questo rappresenta indubbiamente un problema di organizzazione sociale, non si può tuttavia negare che, a sorreggerlo, vi sia anche un modello culturale”. Se c’è qualcosa che, invece, è profondamente mutata negli uomini contemporanei rispetto ai loro predecessori, è la dimensione dell’accudimento e della paternità, un ambito di cui stanno iniziando a scoprire i piaceri e le enormi soddisfazioni affettive, anche se il concedo parentale resta, per i padri, ancora un’opzione difficilmente presa in considerazione, anche perché disincentivata dagli stessi ambienti di lavoro, che tenderebbero a leggere la richiesta come frutto di uno scarso attaccamento alla realtà professionale di riferimento. Due ambiti sono, secondo Saraceno, quelli in cui agire per proseguire sulla strada dell’emancipazione: “Da un lato occorre aumentare i servizi. Aumentarli in numero, realmente, perché è inutile renderli gratuiti se poi non ci sono, o se ci sono soltanto in alcuni territori e sono quasi del tutto assenti in altri. Parallelamente, occorre continuare un’opera di sensibilizzazione culturale quanto mai necessaria”.
Marcello Marchesini