Cosa ci è capitato? Ma poi è successo davvero qualcosa, oppure siamo sempre stati così e i social hanno soltanto dato parola all’esercito del risentimento? Quand’è che abbiamo smesso di accettare, e rispettare le scelte, le idee, i percorsi di vita degli altri? Qual è il momento in cui abbiamo deciso che la differenza non era più non dico una ricchezza, ma almeno un dato di fatto, connaturato all’esperienza della vita umana? Quando abbiamo iniziato a sentirci in diritto di dover sempre esprimere un giudizio sulle scelte altrui e, nel caso non rientrino in qualcosa di molto simile, se non identico, a ciò che avremmo deciso noi stessi, di criticarle aspramente? Com’è nato il desiderio incontenibile di offendere e denigrare una persona diversa da noi, e che alcun male ci ha arrecato, soltanto in quanto diversa? Chi ci ha dato il via libera nel ritenere di pretendere dagli altri quello che non chiediamo neppure a noi stessi? Quand’è che l’inverno del nostro scontento si è mutato nell’afosa estate dei risentimenti, della rabbia e dell’aggressività che basta un niente, ma un niente davvero, a scatenare? E’ stato in un giorno di sole, oppure pioveva a catinelle? C’era forse la nebbia? Si è verificato tutto all’improvviso, come accendere o spegnere un interruttore, oppure è stato un processo graduale, come un ghiacciolo lasciato a sciogliersi al sole?L’antefatto, in pillole: due giovani sposi, lui carpigiano, lei modenese, decidono di organizzare, qualche giorno prima delle nozze, un incontro, aperto a tutti, sul tema del fenomeno migratorio. A raccontare la situazione e riportare le storie dei migranti, alcuni membri dell’associazione Borderline Sicilia, alla quale Stefano e Chiara, questi i nomi dei due sposi (ai quali auguriamo ogni bene) hanno deciso di donare buona parte dei regali di nozze. Escono quindi una serie di articoli che raccontano di una scelta non comune, e subito si scatena la canea: tra accuse di protagonismo (“Perché dirlo, fallo e basta”), al rimprovero, questo forse il più diffuso, di non aver pensato prima ai poveri nostrani, fino a veri e propri insulti, tra i quali “vergogna” è di gran lunga il più blando, per passare poi a “che schifo” e altri, neppure ripetibili. Ora, provando a ragionare con la dovuta pacatezza: è forse sbagliato diffondere una buona pratica, come quella della beneficenza? E non è forse un diritto, nel momento in cui si decide di donare ad altri le proprie sostanze, scegliere in maniera libera chi aiutare, in che modo e quantità farlo? Ancora: se anche non si condividesse la scelta dei due sposi, c’è davvero bisogno di insegnare loro che avrebbero dovuto agire diversamente? Dall’alto di quale autorità morale? Chi, per esempio, ritenesse necessario dare la priorità ai bisognosi di Carpi (ma nasce poi il problema del criterio per stabilire fino a dove si spinga il concetto di carpigianità: nati qui o soltanto residenti? Carpigiani da almeno quattro generazioni o ne bastano due? Con una buona conoscenza del dialetto? Ferrati nella storia della città?), non potrebbe farlo direttamente o , se già ha cominciato, continuare a farlo, lasciando il prossimo, se è convinto che la solidarietà non si fermi alla soglia della propria comunità, libero di aiutare chi crede? E in ultimo: ma davvero è necessario offendere chi compie una scelta, coltiva un’idea, adotta uno stile di vita differente dal nostro, soltanto per il fatto che è, appunto, differente? Ci dà davvero così fastidio la diversità? Che cosa, nella differenza incarnata dall’Altro, ci atterrisce così tanto da riuscire a tramutare il nostro fastidio in paura, e la nostra paura in aggressività? E’ davvero questo, il meglio che possiamo chiedere a noi stessi? E’ realmente così che vogliamo diventare? Individui livorosi, sempre pronti a insultare, criticare, mettersi in cattedra e pontificare sulle sue scelte degli altri? Per inciso: sono stati molti anche i messaggi di apprezzamento per il gesto dei due ragazzi. Ancor di più, ne sono certo, le persone che, leggendo gli articoli, si sono formate la propria opinione senza sentire la necessità di dover commentare o tifare. Ecco. Forse, per evitare che l’immagine che lo specchio dei social ci restituisce sia sempre più simile a quella di Mr. Hyde, potremmo ripartire da qui: dal fatto che non è sempre necessario esprimere il proprio parere, i propri gusti e disgusti, cercando di accettare gli altri per ciò che sono, per le scelte che fanno. Non occorre, per vivere, indossare sempre casacche, entrando a far parte dell’esercito dei tifosi perenni, assetati di nemici da demolire. Si respira anche meglio, forse.
Marcello Marchesini