All’inizio è Reginald Kenneth Dwight, nato a Londra il 25 marzo 1947, poi diventa Elton John, uno dei maggiori artisti rock: cantautore e compositore eclettico e generoso. Ha saputo introdurre il pianoforte là dove le chitarre spadroneggiavano metalliche e furiose, acustiche e dolcissime. Con Bernie Taupin ha formato una delle coppie più prolifiche e originali della storia musicale contemporanea. I suoi successi hanno inondato le colonne sonore della vita di milioni di persone e da circa una cinquantina d’anni accompagnano la contemporaneità di giovani e non più tali.
Entrando al cinema il primo passo da fare è dimenticare Bohemian Rapsody, il secondo astenersi da ogni paragone. Solo così ci si può immergere nella particolare avventura esistenziale di Elton John. Però i due film hanno in comune una cosa non proprio marginale. Il regista Dexter Fletcher ha sostituito Bryan Singer dopo che questi ha abbandonato il set di Bohemian Rapsody. Tuttavia mentre assistere alla travagliata figura del fu Mercury è stato piuttosto coinvolgente, altrettanto non posso dire di questa sintesi biografica che si muove tra sesso, droga e rock&roll. Il film inizia con il protagonista che in abiti di scena naturalmente appariscenti, un costume da diavoletto piuttosto infuocato, entra in una sontuosa villa dove troverà un gruppo di persone che, come lui, devono disintossicarsi. E davanti a quella spoglia, minuta platea comincia a raccontarsi. Assistiamo quindi a una serie di lunghi flash-back che ci consentono di conoscere la faticosa ascesa verso la celebrità partendo da una famiglia in cui regnano ostilità e indifferenza reciproca: un padre pilota della Royal Air Force dalla mentalità ottusa, una madre affatto comprensiva e una nonna affettuosa, attenta e consapevole del talento del nipotino. Il racconto prosegue e si sviluppa come un musical vero e proprio dove le canzoni si integrano nella trama sviluppandola e arricchendola. Ed è nei numeri musicali che il film offre il meglio di sè, volando alto con rallenty e fermo-immagini che sottolineano i momenti apicali di una carriera desiderata e conquistata a fatica. D’altra parte i brani proposti sono belli e significativi del percorso compositivo dell’autore, che si rivela particolarmente abile e talentuoso nel trovare subito le melodie giuste per i testi del fido Bernie Taupin. Mirabile davvero la sequenza in un famoso locale di Los Angeles, che lo stesso Elton commenta così: “c’è questo momento in Rocketman, quello in cui sto suonando al Troubadour club di Los Angeles e tutto, nella stanza, comincia a levitare, incluso il sottoscritto. Onestamente è davvero così che ho vissuto quell’esperienza”.
Il film non indulge sugli aspetti problematici della vita del musicista. E mi riferisco alla sua dipendenza dalla droga e al suo orientamento sessuale che punteggiano il racconto audiovisivo come forse poteva non essere scontato. Invece lo stesso Elton John, anche co-produttore del film, ha inteso mostrarsi nella sua vera veste, senza sdolcinature o ipocrisie. E questo pur essendo un merito che va riconosciuto a lui e al film, è forse anche l’aspetto che sbilancia un po’ il racconto, sottraendolo al piacere di ascoltare e vedere più musica. Anche perché Taron Egerton se la cava egregiamente cantando e soprattutto interpretando brani che abbiamo tutti nella mente: e continuare a naufragare in quel mare di note, colori, luci e paillettes resta uno dei migliori piaceri che questo film e il cinema possano offrire.
Ivan Andreoli