Lampi sul Messico

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Punti di luce dorata squarciano il buio della sala e tracciano sullo schermo un reticolo tridimensionale sul quale compaiono decine di schermi che riproducono fotogrammi dei film presentati alla Mostra dal 1932 a oggi: è la sigla, davvero bellissima, che accompagnerà ogni proiezione della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica che festeggia la sua settantacinquesima edizione, celebrata anche da una mostra fotografica nelle sale del mitico Hotel Des Bains, riaperte appositamente. Ed è una forte emozione ripercorrere attraverso le immagini tante pagine di storia del cinema camminando in ambienti così evocativi e di viscontiana memoria. Immergendosi poi nella lunga serie di proiezioni avvertiamo subito che qualcosa è cambiato. I film presentati hanno spesso una durata insolita, oltre le due ore, a volte anche intorno ai 180 minuti. E’ il risultato di produzioni che nascono sotto la nuova stella dei giganti dello streaming: allontanate da Cannes, approdano al Lido e figurano in concorso al pari dei titoli nati e realizzati per il grande schermo. Ancora non possiamo dire se sia un progresso, ma così va il mondo e convivere diventa una necessità. Il livello di queste produzioni è  comunque certamente all’altezza di un festival che, sin dalla denominazione, cerca non il film ma l’arte cinematografica. E non è quindi uno scandalo se il vincitore assoluto è targato Netflix, anche se le polemiche sollevate da gestori delle sale d’Essai, dagli autori dell’Anac e da altri esercenti cinematografici, non sono prive di qualche buona ragione, perché se il cinema approda direttamente in Tv o su un dispositivo informatico, esclude una fetta importante di pubblico e danneggia un’industria già piuttosto sofferente. Ma parliamo di cinema, anzi di film, e aderiamo incondizionatamente al verdetto della Giuria che ha premiato con il Leone d’oro il migliore in concorso. Il regista messicano Alfonso Cuaron firma il suo Amarcord privo di nostalgia ma ricco di appassionati ricordi autobiografici. Il racconto è ambientato nel quartiere di Città del Messico denominato Roma (da qui il titolo) e inizia con una inquadratura perpendicolare dall’alto di un pavimento di vecchie mattonelle sul quale presto scivola l’acqua di qualcuno che sta lavando quel pavimento. Si può già pensare a qualcosa che deve essere pulito, ma anche a qualcosa che resiste all’azione di quell’acqua: è il ricordo, la memoria di un passato nel quale l’autore è cresciuto. Ed è cresciuto o, meglio, allevato, da figure femminili: la madre e soprattutto la balia, una donna india. La storia procede inseguendo la vita di queste donne e dei bambini che abitano la casa. Storia che risente inevitabilmente di ciò che accade nel mondo di fuori. Così la macrostoria del Messico, quella della miseria, della povertà, dell’ingiustizia, della protesta studentesca dei primi Anni ’70, repressa nel sangue dagli squadroni della morte, addestrati e armati dalla Cia, irrompe a turbare il nostro sguardo e la vita delle persone. Cuaron fotografa il tutto in bianco e nero, luce perfetta che restituisce verità; organizza efficaci piano-sequenza che guidano lo spettatore nelle vicende travagliate dei personaggi e costruisce un affresco molto interessante che incanta e ammalia, annullando la durata del racconto. Messico e nuvole cantava Jannacci con ironia e divertimento; Cuaron ci  racconta quel Messico e quelle nuvole per scoprirne l’intima natura, la reale consistenza, e non è poco se è un film a permettercelo. La Giuria assegna il suo Gran Premio a Yorgos Lanthimos, regista greco della produzione anglo irlandese americana La favorita. Siamo in Inghilterra a inizio secolo XVIII. E’ in corso la guerra con la Francia ma a corte ci si diverte ancora con la corsa delle anatre e si continua a banchettare spudoratamente. La regina Anna, sofferente di gotta, non si cura del potere e lascia le redini del governo alla sua amica Lady Sarah, ma arriva a corte la nuova cameriera Abigail che presto subentrerà nelle grazie (e nel letto) della regina. Racconto preciso e puntuale con un occhio, ma anche tutti e due, alla lezione del Kubrick di Barry Lyndon. La fotografia, infatti, ricerca quella luce particolare di un’epoca illuminata solo dalle candele. Tecnicamente il film rivela tutta la sua spettacolarità, grazie anche a un trio di attrici eccelse: Emma Stone (Coppa Volpi 2016 per La La Land), nei panni di Abigail, Rachel Weisz nel ruolo dell’intrigante cortigiana Lady Sarah e Olivia Colman che vince la Coppa Volpi quale migliore interprete femminile impersonando una regina Anna dal carattere volubile e comportamento instabile. Il regista intende mostrarci le analogie tra il passato e il presente dove, aldilà delle conquiste tecnologiche e di civiltà, il comportamento umano, gli intrighi di palazzo e le lotte di potere, restano gli stessi. Leone d’Argento al francese Jacques Audiard e al suo western girato però in Spagna e Romania: The Sisters brothers (letteralmente I fratelli Sorelle – tratto da un romanzo di Patrick DeWitt). I fratelli in questione, due killer, Eli (John C. Reilly) e Charlie (Joaquim Phoenix), su ordine del Commodoro inseguono dall’Oregon alla California per ucciderlo, Hermann Warm (Riz Ahmed) un mite uomo costretto alla fuga. Ma tra gli inseguitori c’è anche Morris (Jake Gyllenhaal), un cercatore d’oro, perché Warm ha inventato un fluido che versato nell’acqua permette di visualizzare le pepite d’oro. Quella di Warm non è proprio una febbre dell’oro, lui è mosso dal bizzarro progetto di costruire un’utopica comunità a Dallas, gli inseguitori invece sono molto più venali. Il viaggio, che assume anche una valenza iniziatica, rivela il particolare legame dei fratelli, uno con davvero pochi scrupoli e l’altro alla ricerca di una vita normale. Il film alterna e mescola comico e drammatico in un incerto equilibrio, favorendo quell’ambiguità che è propria anche dei legami che si srotolano tra i vari personaggi, non solo tra i fratelli. Azzardato che una regia un po’ approssimativa sia stata addirittura premiata. Altrettanto controverso, a mio parere, il Gran premio assegnato a The nightingale, un altro “western” australiano che ha suscitato non poche polemiche. La storia è quella di una donna, galeotta irlandese, vittima della violenza di un ufficiale inglese che le massacra anche la famiglia. Quando lui viene trasferito lei lo insegue con l’aiuto di un ragazzo indigeno che le fa da guida. Viaggio attraverso la Tasmania selvaggia e inospitale che il giovane aborigeno frequenta con la naturalezza di chi è il vero padrone di quel territorio. La regista Jennifer Kent sceglie l’horror come stile narrativo e non risparmia sangue, inquadrature e situazioni difficilmente sopportabili. Sullo stesso tema ricordo un bellissimo film australiano del 2002 visto proprio a Venezia: The tracker di Rolf de Heer. Anche quello era un viaggio, durante il quale accadevano fatti violentissimi, ma il regista li occultava sostituendoli con quadri pittorici, alla maniera dei vecchi cantastorie, che narravano di fatti eclatanti servendosi appunto di tele dipinte. Ora l’horror applicato a storie di colonialismo e razzismo rischia di mandare in secondo piano non solo la denuncia, ma l’atrocità stessa della violenza di tali comportamenti ed eventi storici, inaccettabili di per sé e non perché così cruenti. Sorge il dubbio che il premio sia stato assegnato per “rimediare” alla polemica sorta sulla solitaria presenza in concorso di una regista donna e alle offese ricevute dalla stessa al termine della proiezione riservata alla stampa. Giusto invece premiare come miglior esordiente l’aborigeno Bajkal Ganambarr: volto perfetto, pochissime parole, sguardo lungimirante e performance di rilievo.
Meritatissima anche la Coppa Volpi, quale miglior attore, a Willem Dafoe per lo stupendo Van Gogh di At eternity’s gate. Con una scelta indubbiamente originale il regista Julian Schnabel, pittore egli stesso, mette in scena episodi ispirati a eventi ritenuti veritieri della vita di Van Gogh e altri completamente inventati, tutti fotografati con la luce e i colori dei suoi dipinti. Perché a suo parere “l’unico modo di descrivere un’opera d’arte è fare un’opera d’arte”. Visto il risultato, come dargli torto.
Ivan Andreoli

 

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