“Stasera dopo il lavoro vai a Porto Rose. Iosco ha bisogno”. Quei quattro chilometri di strada da Pirano a Porto Rose, nel buio della notte, Giovanni Martini se li ricorda ancora. Aveva 19 anni. “Mi hanno messo davanti un pacco di soldi e poi hanno iniziato a interrogarmi citando nomi e cognomi degli amici che lavoravano con me. Volevano sapere se era vero che uno di loro aveva sussurrato: Viva l’Italia! E poi: firma qua che non vuoi collaborare. Ho iniziato ad avere paura perché ci mettevano gli uni contro gli altri. Qualcuno non è più tornato a casa”. E’ il referente per il personale a fare le domande ma c’è il politico dietro di lui e la richiesta nemmeno tanto velata è quella di aderire all’Unione antifascista italo – slava. L’alternativa? Isola Cava.
Giovanni Martini, classe 1933, ha vissuto il periodo bellico come tanti altri bambini di dieci anni ma il peggio è venuto dopo. “Nel 1947 avevamo quattordici anni e ci mandavano nelle colonie. C’era anche il campione ed ex pugile Nino Benvenuti con noi. Oppure ci portavano a Trieste al Villaggio del fanciullo da monsignor Santin che poi a Capodistria è stato picchiato a bastonate. Intanto, iniziavano ad andare via per primi i mariti, padri di famiglia”. E’ nel 1947, infatti, che si registra la prima grossa ondata di esuli da Pola e Fiume: italiani che di punto in bianco si ritrovano in terra jugoslava dopo che sono stati modificati i confini in conseguenza della Seconda guerra mondiale e la penisola istriana viene ceduta a Tito.
“Poi fu dichiarato illegale lavorare all’estero, in breve tempo entrarono in uso i dinari (chi aveva 100 jugolire si ritrovò a possedere 3 dinari) e fu introdotto il fattore 3 (il valore dei prodotti triplicava per chi li acquistava con altra valuta)”. Aumentano le pressioni da parte dell’amministrazione jugoslava e anche i rischi. Pur avendo trovato lavoro nel marzo del 1949, a nemmeno sedici anni, come impiegato nelle saline, Giovanni Martini non sopporta più le pressioni a cui viene sottoposto e comunica ai suoi genitori la scelta, che condividono come famiglia, di partire. E’ il marzo del 1955. “Dopo ci siamo persi, la comunità di Sicciole dove avevamo casa si è disgregata, disperdendosi in varie parti del mondo senza mai dimenticare la propria origine: siamo italiani d’Istria”. L’Italia, però, li ha prima abbandonati al loro destino e poi dimenticati perché insistere per riprendersi l’Istria poteva rappresentare un precedente al quale l’Austria si sarebbe potuta appellare per riottenere l’Alto Adige. “Su un manifesto ogni famiglia doveva elencare ciò che desiderava portare con sé, noi siamo riusciti a prendere un maiale morto anche perché in Italia pagavano bene la carne. Dopo l’approvazione, si imballavano le proprie cose e le si portavano in un magazzino per essere spedite. Io sono partito, insieme ai miei genitori e a due dei miei tre fratelli, e abbiamo raggiunto il confine sul taxi dello zio. Poi, lasciata l’auto agli sloveni, abbiamo proseguito fino a Trieste al Centro Profughi di Prosecco” continua Martini. Dall’Ufficio Assistenza post bellica si ottenevano i documenti per passare al campo di smistamento con l’obiettivo di andar via dal Campo profughi. Le condizioni di vita indussero la madre di Giovanni a essere ricoverata in ospedale a Trieste. “Non mi sono perso d’animo e ho trovato lavoro imbarcandomi come mozzo sulla Giuseppe Mazzini. Le compagnie di armatori pagavano bene chi stava per mare”. Nonostante i sacrifici, Giovanni racconta le avventure e ricorda la gioia di aver potuto provvedere al sostentamento di tutta la sua famiglia. “Non ci rimaneva più niente, solo la famiglia, un vincolo sacro”. Giovanni era ancora imbarcato quando la sua famiglia prese la decisione di trasferirsi a Fossoli di Carpi presso l’ex Campo di concentramento, rinominato dai profughi istriani Villaggio San Marco. “Io sono arrivato a Carpi nel 1958 e già mio padre aveva trovato un posto alla Cooperativa Muratori e lavorava alla costruzione dell’Ospedale. Alla sera rientrava in bicicletta con un sacco di terra buona per fare l’orto”. L’accoglienza non fu certo calorosa. “Fuggivamo dalla Jugoslavia e la gente era convinta che fossimo fascisti cacciati da Tito e dal suo comunismo. In primo luogo, era la politica che non ci voleva e ha sepolto nel silenzio il dramma che abbiamo vissuto. Nessuno ha saputo o voluto spiegare al Paese che quelli che scappavano dalla Venezia Giulia non erano fascisti. Nessun risarcimento è mai stato offerto a famiglie che, per ragion di Stato, hanno abbandonato tutto quello che avevano, i sacrifici di una vita. Quando ripenso ai miei genitori mi si stringe un nodo in gola. Io sono stato tutto sommato fortunato”.
Poi, sul ponte vicino al Campo, si radunano le ragazze per sentir cantare Ferruccio Tagliavini e la gente di Fossoli comincia a frequentare il campo dove prende vita una scuola, che diventa la scuola di tutta la frazione. “Tanti carpigiani, tra cui Foroni, Forti, Bulgarelli che aveva il negozio in corso Fanti e Burani che aveva il negozio di scarpe, ci hanno aiutati permettendoci di saldare i nostri conti con dei pagherò”. Tanti sono i carpigiani che iniziano a recarsi a Fossoli per fare la spesa acquistando presso il negozio di alimentari e drogheria che Giovanni Martini gestirà fino al 1963. “Mi sono sposato con una carpigiana e ho lavorato poi come dipendente. In quegli anni diversi costruttori carpigiani tra cui Costa e Po, ci hanno aiutato a costruire casa e a uscire progressivamente dal campo”. Dopo 25 anni di volontariato a Porta Aperta, oggi Giovanni si ritrova di fronte chi è sbarcato dopo un lungo viaggio dall’Africa e lo avverte: “Guarda che sono stato profugo anch’io. Bisogna farsi accettare”.
Sara Gelli