“Se entri in contatto con loro, i libri ti consegnano subito parole più adatte alla vita. Io sono stato fortunato, perché molte carceri hanno solo le guardie e le celle. In galera ci finiscono i figli dell’ignoranza e quando uno come me scopre la cultura, ne viene subito segnato, in positivo”. E’ un’esperienza incredibile, quella che Salvatore Striano ha raccontato a Carpi, la scorsa settimana, nel corso di un incontro della rassegna Ne vale la pena: adolescente che definire problematico sarebbe un eufemismo, faceva parte del gruppo Teste matte, una banda di giovani in guerra con lo Stato e la Camorra. Dormiva con due pistole sotto al cuscino e se non ha ucciso nessuno è stato più un caso che un atto deliberato. Arrestato da latitante in Spagna, Striano è poi trasferito a Rebibbia, dal quale esce nel 2006, dopo aver scontato 11 anni di pena. Dietro le sbarre, però, avviene quel che, nell’inferno di troppi penitenziari italiani, può sembrare appartenere più a una favola fortunata che alla realtà. Grazie a Cosimo, compagno di prigionia, scopre il teatro, iniziando da Napoli milionaria di Eduardo De Filippo. Poi l’incontro con Bennett, bibliotecario nigeriano della prigione, e l’amore per i libri. Fino all’Orso d’Oro di Berlino, grazie al capolavoro dei fratelli Taviani, Cesare deve morire, ambientato proprio all’interno del penitenziario romano e interpretato dai detenuti. “Le persone oneste devono capire che puntare sulla riabilitazione dei condannati conviene prima di tutto a loro – ha spiegato un emozionato Salvatore – perché se non ci mettiamo cultura e dei validi operatori sociali, le carceri non diventano altro che campi di addestramento, nelle quali si impara a rapinare, truffare, uccidere meglio e dalle quali si esce pieni di rabbia e voglia di vendicarsi”. Purtroppo, oggi, quello di Salvatore resta un caso marginale: soltanto il 10% della popolazione detenuta riesce ad accedere a un programma riabilitativo. Il resto sono psicofarmaci, giornate vuote e in molti, troppi casi, il pensiero più terribile, quello di appendere una corta e farla finita. I libri, la pittura e la musica, possono davvero salvare dall’inferno. “Da quando ho letto Shakespeare – continua Salvatore – ho scoperto che nella mia vita ho conosciuto tantissimi Amleto, giovani napoletani senza alcuna colpa ai quali, improvvisamente, è stato ucciso il padre; o Giuliette e Romei che si vogliono amare nonostante tra le rispettive famiglie sia in corso una faida sanguinaria o, ancora, dei Macbeth, personaggi assetati di potere e pronti a commettere qualsiasi atrocità pur di ottenerlo”. E le celle non sono, spiega, quelle che ci mostrano i film, o non soltanto. Su questo Salvatore, che scriveva lettere d’amore per i suoi compagni, è molto chiaro: “In carcere, in realtà, c’è molta umanità, molta più di quella che ho trovato all’esterno. E’ un luogo di sofferenza e amore. Tanto che, uscitone, ho avuto paura, perché mi sono sentito solo. Ma ho resistito e ora la mia vita è consacrata a essere un artista socialmente utile, a lottare perché ci siano delle scuole che siano meno carceri e carceri che siano più scuole. Perché se c’è una cosa che ho imparato sulla mia pelle, è che la cultura mette in crisi gli uomini erranti”.
Marcello Marchesini