“Test Invalsi: boicottarli è fuori dalla realtà”

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Come ogni anno le prove Invalsi generano polemiche, scatenando dibattiti sulla loro presunta efficacia e sui loro costi.  Tanti i detrattori dei test a risposta multipla in programma per il mese di maggio: hanno lo scopo di valutare il livello di apprendimento degli studenti italiani della scuola primaria e secondaria e di confrontarlo con quello delle altre scuole europee. Ancor più grande la disinformazione su questo strumento, di cui si serve il Miur per inviduare i punti di forza e di debolezza del sistema scolastico nazionale. Al professor Paolo Pergreffi, dirigente scolastico dell’Itis L. Da Vinci chiediamo: 

Professore, sono sempre di più le scuole che protestano contro le prove Invalsi e gli insegnanti che scelgono di boicottarle. A sostenerli anche alcuni genitori che preferiscono non mandare i figli a scuola nei giorni dei test. Ma le prove Invalsi sono davvero così inutili e pericolose?

“Ritengo di no. In tutti i Paesi europei e a economia avanzata vengono effettuati test sulla preparazione degli studenti, utili sia alle scuole per valutare l’efficacia del proprio operato, sia ai governi per valutare l’efficacia delle proprie politiche scolastiche. In Italia, questi test sono stati spesso vissuti da una componente del corpo docente come una minaccia e un modo subdolo di essere giudicati e classificati. Un timore del tutto infondato”. 

Gli insegnanti che protestano si sentono controllati, sostengono che i test sono “dannosi, escludenti e antidemocratici” perché non tengono conto delle diversità di ogni persona e di ciascun istituto scolastico, ed essendo inoltre a risposta multipla non forniscono una valutazione sulla capacità di espressione dell’ alunno. Lei cosa ne pensa? 

“I test comprendono una parte relativa alle cosiddette “informazioni di contesto” che riguardano sia lo status socio-economico familiare che quello del territorio di appartenenza. Questi dati vengono poi associati in modo anonimo alle classi, consentendo di valutare le prestazioni degli allievi e i risultati dei test in relazione a scuole in analoghe situazioni di utenza. I test non servono quindi per giudicare, ma per rilevare le oggettive difficoltà in cui le scuole si trovano a operare, così come il termometro rileva la febbre ma non ne è responsabile. Questo si può ottenere solo confrontandosi con altre scuole che operano in analoghi contesti socio-economici e culturali. Chi ritiene di poter vivere isolato, autovalutandosi e senza confrontarsi con gli altri, al giorno d’oggi è fuori dalla realtà”.

Tra le accuse mosse c’è anche quella dei costi che ne derivano, circa 14 milioni di euro all’anno. Molti si domandano se non sarebbe meglio investire quei soldi in questioni più urgenti…

“E’ difficile investire senza conoscere su cosa sia necessario intervenire, su quali aspetti carenti dell’attività didattica concentrare le risorse, quali siano le aree disciplinari che vanno rafforzate, o quale sia il proprio livello di preparazione in relazione a ciò che fanno gli altri. Le risorse distribuite a pioggia, tanto per poter dire di avere investito nella scuola, o per guadagnare consenso, dovrebbero essere sempre evitate in una seria politica scolastica”.

Secondo lei sarebbe opportuno apportare delle modifiche ai test? 

“I test Invalsi sono certamente perfettibili. 

In particolare, credo che i risultati dovrebbero essere di più facile lettura e consultazione, pur senza arrivare agli estremi della Gran Bretagna dove i risultati e le classifiche delle scuole vengono pubblicati sui giornali.  Penso inoltre che sarebbero molto utili incontri di presentazione dei test alle famiglie, per spiegare che cosa sono, a cosa servono, quali risultati e problematiche rilevano, così si eviterebbero i casi di giudizi troppo precipitosi e di decisioni inappropriate seppur prese in buona fede”.

Chiara Sorrentino