L’ultima frontiera? L’Africa

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Franco Mosconi, romagnolo di nascita ma carpigiano d’adozione, professore associato di Economia Industriale a Parma e in passato consigliere economico del presidente del Consiglio Romano Prodi, ha pubblicato in inglese per la Routledge di Oxford un libro nel quale parla della necessità di nuove politiche industriali in Europa, dal titolo: The New European Industrial Policy. Global competitiveness and the manufacturing renaissance.
Professor Mosconi parliamo di attualità: cosa sta accadendo nel mondo bancario italiano?
“In Italia non c’è nessun problema particolare per quanto riguarda il sistema bancario: ha i coefficienti patrimoniali e i collaterali a garanzia nella media europea e il questionario mandato alle banche che ha fatto tanto rumore e provocato crolli in borsa è una prassi della Bce nei confronti di tutto il sistema bancario dell’Eurozona. Dopo le dichiarazioni del presidente della Banca Centrale, Mario Draghi, si può stare relativamente più tranquilli. Ciò non toglie che nel nostro sistema bancario ci sono istituti che hanno bisogno di interventi e credo che, a breve, potremmo assistere a un vero e proprio risiko bancario”.
Il sistema industriale dell’Emilia Romagna cresce, ma meno di quanto fossero le previsioni; com’è lo stato di salute dell’economia della nostra Regione?
“L’Emilia Romagna ha gli indicatori positivi con dati superiori alla media nazionale, ma non possiamo accontentarci. Abbiamo un’economia robusta che fonda la sua forza su due cose: manifattura ed export. A queste bisogna aggiungerne una terza. Ormai non girano solo le merci ma le fabbriche: da alcuni anni il fenomeno che vede i tedeschi comprare aziende a Bologna, i carpigiani comprare aziende in Germania. Arrivano gli americani e fanno investimenti. Questo fenomeno rappresenta la nuova frontiera dell’internalizzazione. Condivido il ragionevole ottimismo sul futuro dell’economia regionale. L’Emilia Romagna è la regione più dinamica sul fronte di questi investimenti che vanno e vengono; ma tutto ciò ha bisogno di una politica industriale. Senza voler polemizzare devo sottolineare che questa è un’area di politiche pubbliche sottovalutata a livello nazionale: ci portiamo dietro una presunzione da parte di tanti teorici, di tanti economisti di grido secondo i quali la politica industriale è destinata a fallire. Bisogna trovare un accordo su cosa s’intende, nel 21esimo secolo, per politica industriale. Come mai gli Stati Uniti e la Germania, due paesi autenticamente federali, hanno una politica industriale manifatturiera centrale? Washington e Berlino guidano le nuove politiche industriali perché sanno che sono strategiche per il Paese e il futuro. E questo perché la manifattura conta. L’Italia, da sempre Paese manifatturiero, dovrebbe fare quello che hanno fatto la Germania e gli USA e invece… La nuova politica industriale implica incoraggiare gli investimenti in conoscenza a loro volta declinabili come spesa in ricerca e sviluppo e formazione del capitale umano; senza questi elementi non si va da nessuna parte e sono più necessari dove ci sono piccole e medie imprese, perché le grandi se le fanno da sole. Servono strutture collettive pubbliche-private dove possono andare le Pmi per risolvere i loro problemi”.
Calo del petrolio e fine dell’embargo all’Iran. Notizie positive per la nostra economia?
“Di primo acchito da economista industriale, il calo del petrolio lo posso giudicare positivo perché siamo un Paese e una regione trasformatrici con tante imprese  ad alto consumo di energia e quindi la diminuzione del prezzo del petrolio sembra una buona notizia, ma c’è il rovescio della medaglia. La diminuzione del prezzo fa calare le entrate in molti di quei Paesi nei quali noi esportiamo il top della nostra produzione. Il calo del petrolio fa scendere i costi di produzione e le esportazioni restano l’incognita dei prossimi mesi. Con l’Iran c’è un rapporto di vecchia data con il sistema industriale italiano e l’apertura di questo Paese potrebbe portare nuove interessanti opportunità per l’Italia”.
Dopo anni di boom anche i Paesi del Brics, in particolare Brasile, Russia e Cina, mostrano segnali di crisi.
“Noi vendiamo prodotti molto specifici: beni d’investimento che servono per produrre o i beni della moda e in questo caso possiamo sperare che l’impatto sia meno dirompente. E comunque gli imprenditori non stanno fermi e da quando è emersa la crisi di quei Paesi si può notare che uno dei mercati a cui si sta rivolgendo il sistema industriale regionale è l’Africa. L’Africa ha zone che stanno crescendo molto bene e li si nota un attivismo italiano ed emiliano-romagnolo. L’economia mondiale è un gioco a somma positiva; negli anni i giocatori sono sempre aumentati nonostante le ripetute crisi economiche e politiche”.
Si parla della necessità di una politica di difesa estera comune per i Paesi dell’Ue, non sarebbe utile anche una politica industriale comune?
“Io sostengo questa tesi: la nuova politica industriale dovrebbe essere spostata a  Bruxelles come avviene negli Stati Uniti tramite apposite agenzie federali.   E’ necessario agire a livello comunitario. Ogni paese è troppo piccolo per creare grandi programmi per le tecnologie del futuro. La tesi di fondo del mio libro è che le politiche industriali dovrebbero avere lo stesso rango di altre politiche comunitarie. Bruxelles dovrebbe coordinare i centri di eccellenza dei grandi progetti tecnologici-scientifici e poi ci sarebbe un ruolo di applicazione degli Stati e delle Regioni, ma fino a quando ogni Stato (o come in Italia ogni regione) vuol fare la sua politica industriale le possibilità di farcela oggi sono limitate”.
Pierluigi Senatore

 

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