Che c’azzecca la perseveranza con l’ereditare? A sviscerare la questione ci ha pensato Salvatore Natoli, professore di Filosofia teoretica all’Università di Milano Bicocca, nella sua lectio magistralis. Ma, prima che lui iniziasse a far riflettere i presenti, con un pizzico di timore reverenziale, Giuseppe Schena, presidente della Fondazione CR di Carpi, ha introdotto il professore confessando un dubbio che lo ha attanagliato per giorni. Colpa, si fa per dire, di una delle locandine rosse sparse nei locali della città a firma di Thomas Hobbes, su cui c’era scritto In natura esiste solo il presente. E, allora, se così è, ha fatto notare Schena, “non è lo ‘slogan ideale’ per questo Festival. La perseveranza ha bisogno di tempo. In questo Paese ci sono molti pazienti e pochi perseveranti. La perseveranza ha dell’opportunismo”. Il professor Natoli non ha battuto ciglio ed è partito dall’origine della parola che ha guidato i tre giorni filosofici emiliani, ereditare. “In tedesco si dice erbe ed è connesso con l’orbus latino, cioè privo, da cui deriva orfanos. Ha a che vedere con il ricevere e il far fruttare, come sosteneva Hegel”. L’erede, insomma, riceve qualcosa dopo aver perso qualcos’altro. “C’è dunque un rapporto di discontinuità e continuità allo stesso tempo. E di responsabilità”. In che senso? “L’eredità non è solo materiale, ma riguarda anche il nome o l’ambiente di provenienza. Se socialmente riconosciuti come di valore, o garanzia di affidabilità, allora, bisognerà continuare a esserne all’altezza o, viceversa, tentare di aggiustare il tiro. Ed è quello che stiamo facendo col debito pubblico, l’eredità che ci ha lasciato chi è venuto prima di noi, quelli che, ora, si vorrebbero rottamare”. E di quanto sia difficile separarsi da un’eredità “pesante”, morale o materiale che sia, collettiva o individuale, la storia di molti di noi ne è piena. “Nel mondo greco il destino non era la dimensione ineluttabile di ciò che sarebbe accaduto in futuro, ma era la trasmissione del futuro. Mentre nel libro di Giobbe, nella Bibbia, c’è scritto che le colpe dei padri ricadranno sui figli”. Per farla breve, nell’ereditare c’è una presa in carico di una situazione, che non può essere momentanea od occasionale, “per proseguirla, trasmetterla o prenderne le distanze”. E questo esige azione, nel tempo. “L’assumere un impegno nel tempo si fonda su una virtù peculiare, la perseveranza. La quale, anche nelle difficoltà, aiuta a non perdere di vista la meta”. Ma, ha proseguito Natoli, “la perseveranza differisce dalla speranza, l’ultima dea che si apre al passato per fuggire da un presente doloroso, perché guarda al futuro carica del peso di ciò che è stato, coltivando nel presente tutto il bene possibile”. Un esempio? Viene in aiuto un racconto ebraico, dove a un vecchio con pochi giorni davanti a sé si chiede perché si preoccupi di piantare un albero: Consegnerò la vita ad altri. “In questo racconto, c’è l’amore per i prossimi, per le persone vicine, e non per l’umanità tutta. Platone diceva che il bene non l’ha mai visto, il bene si prende dagli uomini buoni. Il perseverante è colui che è aperto al futuro, che sa portare il passato al presente, che può declinare al futuro il passato”. Ecco perché chi riceve l’eredità dev’essere perseverante, altrimenti il rischio è quello di perdere tutto e non trasmettere più nulla. Ma questa virtù si guadagna solo praticandola, senza cadere nella cieca ostinazione: “il perseverante si accorge di essere tale solo di fronte all’obiezione. Di fronte a un’eredità difficile si chiede come farla fruttare”. Il carattere della perseveranza, però, è sfaccettato: “la perseveranza apprende da quanto è accaduto. Rottamare è distruggere la tradizione o è vedere che l’esperienza fatta ha dei limiti? Il perseverante sa apportare cambiamenti, altrimenti è un cocciuto. Tommaso d’Aquino lo avrebbe definito pertinace, o perché non ha capito l’errore o per vanagloria”. Anche chi ha degli exploit non è perseverante, ha sostenuto Natoli: “questa virtù dura nel tempo”. Ma gli assi della temporalità hanno subito smottamenti: siamo passati da un’innaturale attesa del futuro a un presente ricco di possibilità che, da tante sono, possono renderci immobili. “Il presente possiamo non subirlo solo problematizzandolo: così facendo si apriranno le porte del passato e del futuro con una luce diversa”. Ed ecco che il presente “genera quello di cui qui ora c’è segno. L’attenzione al presente è la misura più alta per capire, per far transitare ciò che è passato. Non abbiamo più nulla da aspettare, tutto si gioca nel qui e ora”. Prima di salutare, il professore dà un ultimo spunto: “dobbiamo essere più che mai perseveranti, affinché il bene cresca e il male si cancelli sul tronco del passato”.
Antonella De Minico