Il mondo muta. Velocemente. E corre in Rete. Tra un tweet e un post su Facebook, tutto viene addentato con voracità. Consumato in fretta. Spesso senza prendersi il tempo di comprendere il contesto, ben più complesso e ampio rispetto alle poche sillabe di questi nuovi linguaggi che scorrono veloci sui monitori di telefoni, tablet e computer. Eternamente connessi, la nostra attenzione è diventata superficiale, la nostra vita multitasking, la nostra privacy sempre più esposta allo sguardo virtuale di amici e non solo. La Rete è potente, banalizzarla significherebbe sottovalutarne rischi e potenzialità. La viralità di una notizia può essere esplosiva anche quando questa non ha alcuna veridicità: basti pensare, solo per fare un esempio, ai ripetuti “avvistamenti” di improbabili clown picchiatori. Psicosi scatenata, pare, da tre ragazzini finiti ora nei guai per simulazione di reato. Ma il lato oscuro della Rete cela pieghe ben più perturbanti. Facebook e Twitter nati “per renderci tutti più vicini tra noi, più amici e comunicativi”, sono ben presto diventati “macchine di distruzione della nostra privacy, ci spiano per vendere le informazioni sui nostri gusti e sui nostri consumi al migliore acquirente”. Google che cominciò con l’escludere “ogni pubblicità dai risultati del suo motore di ricerca” è diventata “la più gigantesca macchina pubblicitaria del pianeta”. L’età dell’innocenza è finita da un pezzo, l’universo digitale non è un perduto Eden, bensì un luogo dominato da giganti. Colossi del web, nelle cui mani si concentra un potere pressoché assoluto. La Rete non è nè neutra né, tantomeno, innocente. Lo sa bene il giornalista Federico Rampini, inviato per La Repubblica a New York, che abbiamo incontrato a Parma, in Feltrinelli, in occasione della presentazione del suo ultimo libro Rete Padrona. Con le sue immancabili bretelle e la compostezza alla quale ci ha abituati da anni, Rampini si dichiara “un utilizzatore sfrenato della Rete, tra i primi a denunciarne l’involuzione tecno-totalitaria. Stiamo assistendo – commenta – a un’oscurissima fase due della rivoluzione digitale”. La Rete si impadronisce delle nostre vite, trasformandole quotidianamente: “penetra nel nostro modo di lavorare, di comunicare, di coltivare amicizie, di avere relazioni sociali, di informarci, di leggere, di studiare… La rete è diventata onnipresente – ci spiega il giornalista – e dobbiamo capire quali sono le sue insidie. Le potenzialità delle nuove tecnologie sono meravigliose ma, vivendo nel cuore del capitalismo digitale, negli Stati Uniti, vedo emergere un nuovo capitalismo predatore, monopolista e molto pericoloso”.
Le facilitazioni che la Rete ci offre, ci stanno rendendo distratti, immersi in un frastuono di cose irrilevanti. Quali sono i pericoli maggiori che intravede nella Rete?
“Le insidie sono numerose, a partire dalla tutela della nostra privacy. L’illusione della gratuità di Internet non deve farci dimenticare che quando la Rete è gratuita, il prodotto in vendita siamo noi. Vi è poi il preoccupante fenomeno di nuove forme di sfruttamento quasi precapitalistico: gli operai cinesi che assemblano i prodotti della Apple o i fattorini di Amazon pagati, a volte, col salario minimo, nel cuore degli States. Assistiamo inoltre a fenomeni massicci di elusione fiscale: i colossi del capitalismo digitale fanno profitti e non pagano tasse. E poi, non dimentichiamo l’aspetto monopolistico: Internet, che doveva essere uno spazio di libertà, la stanno occupando loro”.
Siamo ormai al paradosso: grazie a Internet siamo più informati ma in Rete girano tante bufale. Come ci si può districare?
“Siamo più informati perché la nostra capacità di accesso al sapere e alle notizie è stata moltiplicata ma, al tempo stesso, Internet sta diventando il nuovo terreno di coltura di miti, leggende, manipolazione e disinformazione… Occorre stare attenti perché assistiamo a una sorta di balcanizzazione della Rete: ciascuno si crea un mondo informativo su misura dei propri pregiudizi e delle proprie ideologie. Poi c’è il fenomeno dei regimi autoritari, dalla Cina alla Russia di Putin, i quali hanno imparato a controllare e manipolare la Rete”.
I cosiddetti “nativi digitali” vivono in un mondo dominato da app che sembrano poter colonizzare ogni aspetto della loro vita. Cosa l’affascina e cosa la impaurisce di questa categoria?
“Ciò che mi affascina dei nativi digitali, che sono anche i miei figli, è la facilità con cui si impadroniscono delle nuove tecnologie ma, qualche volta, temo che questo corrisponda anche a un’ingenuità, all’incapacità di sapersi proteggere, a una perdita di spessore e di profondità del pensiero”.
Come fa Federico Rampini al mattino a sapere cosa succede nel mondo? Più banalmente, che applicazioni ha sul suo smartphone?
“Le applicazioni mobili di New York Times, Cnn e Wall Street Journal che sono alcune delle mie fonti preferite negli Stati Uniti. Io mi sveglio molto presto e, alle 5 del mattino, a New York, ancora oggi, sul pianerottolo, trovo una bella mazzetta di giornali: ammetto di continuare a frequentare anche la carta…”. In questa presunta rivoluzione digitale, tornano in auge termini ormai decaduti, parole già sentite, desuete: padrona, capitalismo, schiavismo, sfruttamento… Nell’era del dominio del web, della Rete padrona, per dirla alla Rampini, macchine sempre più intelligenti stanno prendendo il sopravvento? I grandi colossi digitali considerano il mondo come la loro personale camera dei giocattoli: è possibile difenderci da questo nuovo totalitarismo digitale?
“Non è che io sia asociale. Sono sociale a sufficienza. Ma gli strumenti che voi create in realtà fabbricano bisogni sociali estremi, innaturali. Nessuno ha bisogno del livello di contatto che voi fornite. Non migliora nulla. Non è nutriente. È come lo snack food. Sai come progettano questo cibo? Determinano scientificamente quanto sale e quanti grassi ci debbano mettere dentro perché tu continui a mangiarlo. Tu non sei affamato, non hai bisogno del cibo, non ti dà niente, ma continui a ingurgitare queste calorie vuote. Questo è quello che voi cercate di vendere. Stessa cosa. Calorie vuote, all’infinito, solo il loro equivalente digitale-sociale. E lo calibrate per creare un’uguale forma di assuefazione”. Chi parla è un personaggio del romanzo di Dave Eggers, The Circle, di cui Rampini parla come di una “formidabile allegoria orwelliana del nuovo totalitarismo digitale, abile nel mascherarsi dietro le bandiere progressiste, pronto a schierarsi con tutte le cause nobili per la salvezza del pianeta, ma spietato nel sorvegliare le nostre anime”. “Il mondo mostruoso, autarchico e dispotico, descritto da George Orwell nel suo 1984, era un luogo nel quale tutti erano costantemente sorvegliati da un’entità – il Big brother – sconosciuta, il cui potere era totale”, ha spiegato nella sua lectio magistralis il professor Umberto Curi a Carpi, ospite del Festival Filosofia. La democrazia, secondo Curi, è l’antitesi di quello scenario: “nell’attuale sistema politico, le procedure del potere sono svelate ai cittadini così come la privacy di questi ultimi è tutelata, inviolabile. La trasparenza che fonda e regola la democrazia la rende fragile. Se la democrazia è il governo pubblico in pubblico, allora essa è impotente. Inefficace, poiché l’esercizio del potere, i miti ce lo insegnano, è connesso con l’invisibilità delle procedure”. Ergo, in un mondo dominato dalla Rete, dove siamo tutti esposti, è certamente la tecnica a detenere il potere. Non la libertà personale ne, tantomeno, la democrazia. La Rete ci tiene in scacco.
Jessica Bianchi e Stefania Piras