“Il leit motiv Si stava meglio quando si stava peggio mi ha accompagnato per tutta la durata di questo mio viaggio. Ognuno aveva le sue buone ragioni: ad esempio in Slovenia era palpabile la sensazione di delusione nei confronti della classe politica dopo le speranze ispirate dall’indipendenza conquistata nel 1991: poco lavoro, meno tutele sociali e politicanti corrotti sono il piatto amaro che si ritrova a masticare ogni giorno la popolazione”. Dopo la partecipazione alla Randonnè Londra Edimburgo Londra dello scorso anno, quest’estate il carpigiano Michele Bonicelli, in sella alla sua fida Giant, ha percorso le strade delle martoriate terre della ex Yugoslavia per correre dapprima la Maratona internazionale Bihac-Srebrenica e, in seguito, la Randonnèe Transdanubiana ungherese.
Dalla Slovenia, passando per la Croazia e la Bosnia, Michele ha toccato con mano le ferite della guerra e ricalcato le orme della storia che lì ha transitato a lungo, con il suo carico di morti: paesi distrutti dalle bombe o dal fuoco, case abbandonate e mai più riabitate…
“Nella città di Bihac, in Bosnia, mi sono iscritto alla Maratona. Siamo partiti sotto la pioggia in 220, tra il calore e il sostegno della gente. Dopo Sarajevo, invece, il nostro passaggio divideva gli animi: nelle zone musulmane ci applaudivano, lanciando persino fiori, in quelle serbe ci ignoravano completamente. In molti paesi gli uomini spaccavano platealmente la legna alla vista della carovana: l’atmosfera era tutt’altro che amichevole. Lì, la guerra, in un certo senso, non è mai finita e credo che certe ferite non si potranno mai rimarginare. D’altronde quei territori sono stati per centinaia d’anni le zone di confine e conflitto tra impero austro-ungarico e ottomano con inserimenti filo-russi: difficile pensare che le tante crudeltà stratificate nel corso del tempo possano appianarsi”. Dopo 450 chilometri pedalati in tre giorni, l’arrivo a Srebrenica è stato solenne ma “ero perplesso per quel che avevo visto e letto e non ho partecipato alle cerimonie e alle preghiere”, racconta Michele. “Ho preso parte alla maratona il cui motto è Per non dimenticare e perchè non si ripeta mai più, perchè avevo l’impressione che di questa guerra civile e dei misfatti compiuti dai paesi occidentali e dall’Onu si parlasse sempre meno. Insomma ero come tutti convinto della versione del massacro serbo e della rimozione compiacente da parte dei mass media occidentali. Poi però ho deciso di documentarmi maggiormente e ho letto un libro di Alexander Dorin il quale raccontava tutta un’altra storia. Foto alla mano testimoniava le 3.200 uccisioni causate dal 1991 al ‘95 dalle truppe bosniache, comandate dal famigerato Naser Oric in seguito arrestato e condannato a due anni di carcere, restituendo tutt’altra versione del “massacro”. Dorin sostiene che Clinton abbia chiesto all’allora presidente bosniaco Alija Izetbegović una “smoking gun” per bombardare Belgrado e concludere la guerra. Dopo tre anni di violenze le truppe serbe entrarono a Srebrenica senza colpo ferire ma le milizie bosniache, forti di 7.000 uomini, si diedero alla macchia invece di deporre le armi come pattuito. I civili fuggirono mentre i militari cercarono di impedire l’avanzata serba verso Tuzla e in questi scontri 2.000 di loro morirono… questo è , secondo i serbi, ciò che successe davvero. I bosniaci e i mass media internazionali gonfiarono la notizia e un mese dopo iniziarono i bombardamenti su Belgrado. In seguito vennero portate verso Potocari molte vittime di scontri avvenuti anche a 50 chilometri di distanza e che non centravano nulla con Srebrenica”. Si sa che in guerra la prima vittima è proprio verità… In sella alla sua Giant, dopo aver ripercorso la strada a ritroso verso Sarajevo, Michele, attraversando foreste e costeggiando laghi, ha poi puntato dritto verso l’Ungheria.
La prima parte del suo viaggio, otto giorni e 1.300 chilometri dopo, era terminata. Ora ad aspettarlo è la Randonnèe. “2.700 chilometri in totale pedalati in 15 giorni: le emozioni non sono certo mancate ma, grazie al cielo, è finito tutto bene”. Nonostante la pioggia, qualche strada sbagliata, il vento contro, il buio penetrante e qualche mito sfatato (“ma l’Ungheria non doveva essere tutta pianeggiante?”, ride Michele) il “sogno di quest’anno – conclude il nostro ciclista errante – si è concluso positivamente ma ha acceso le scintille per nuovi sogni e altre sfide: il progetto più ambizioso è il giro del mondo in 80 giorni attraversando Russia, Usa ed Europa”. Che il viaggio continui…
Jessica Bianchi