Alici nel paese delle meraviglie

0
499

C’è stato un tempo in cui il disagio giovanile è stato rappresentato al cinema con intensi drammi esistenziali. Basti pensare a Gioventù bruciata di Nicholas Ray, anno 1955, che nel titolo originale rivelava l’impotenza e la solitudine di quei giovani: Rebels without a cause, cioè ribelli senza una causa. Poi c’è stata la vera ribellione, con molte cause, della fine degli Anni ’60, quando in più di mezzo mondo, la guerra in Vietnam e il desiderio di modificare scuola e società hanno mobilitato intere generazioni e il cinema ci ha fornito utili elementi di denuncia, riflessione e, perché no, anche di spettacolo. Stupendi titoli come Fragole e sangue, Easy rider, Blow up e Zabriskie point, tanto per citarne alcuni, ci hanno restituito il quadro di un’epoca, o meglio di un passaggio epocale, al di là degli effettivi risultati prodotti da quelle mobilitazioni giovanili. La storia è continuata con notevoli cambiamenti, i giovani sono diventati meno importanti e sempre più confinati nella precarietà non solo lavorativa, ma esistenziale. E il cinema ci ha mostrato ritratti impietosi di giovani in affanno, incapaci o senza possibilità di trovare un posto nel mondo. Penso a Bowling a Columbine, lo stupendo documentario di Michael Moore sull’insensata strage nella scuola di quella città, episodio che ha ispirato anche Elephant di Gus Van Sant. Poi, con un salto notevole, si arriva all’oggi, a questo Bling ring, decisamente meno drammatico ma pur sempre indice di una condizione giovanile tutt’altro che risolta. All’origine la vera storia di una banda di cinque ragazzini tra i diciotto e i vent’anni. Rebecca, la vera capobanda (Katie Chang), Marc, il dominatore del computer (Israel Broussard) e le altre tre complici Nicky (Emma Watson), Sam (Taissa Farmiga) e Chloe (Claire Julien) scorrazzano indisturbati per circa due anni nelle ville di alcune star hollywoodiane, approfittando della loro casa lasciata vuota, incustodita, spesso addirittura aperta, rubando di tutto, gioielli, vestiti, scarpe e, naturalmente, dollari. Ma tutto sommato rubando poco, così poco che le padrone di casa non se ne sono accorte per mesi. E questo ci dà la misura di cosa sia la ricchezza estrema, esagerata e smisurata di certa gente. La regista Sofia Coppola, qui al suo quinto film, è particolarmente abile nel mostrarci la fluidità delle intrusioni, la meraviglia dei giovani abbagliati da armadi stracolmi di ogni firma d’alta moda, scaffali straripanti di scarpe rigorosamente affiancate secondo ogni sfumatura di colore, quintali di gioielli e rotoloni di banconote, non di carta igienica! Lo sguardo della macchina da presa è divertito e ironico, ma la sensazione, almeno la mia, è di pietà per questi giovani infatuati di ricchezza e privi di ogni altro valore o anche solo di un desiderio che non siano il lusso e il denaro. Esemplare la totale mancanza di amore, di sesso. A quell’età dovrebbe essere una delle molle più urgenti. Insomma una specie di pensiero fisso. Invece niente, non una sola carezza, nemmeno un cenno, in tutto il film. Bella prova sia registica che attoriale. Da sottolineare l’amara riflessione di Marc sul fascino perverso che Bonnie and Clyde esercitano sugli americani. Il finale è scontato, anche perché legato alla verità dei fatti. I cinque vengono scoperti e incarcerati. Ma anche in questo frangente stupisce il loro atteggiamento, pressochè impassibile. L’accettazione pura e semplice di “un destino” di un sogno di ricchezza svanito, perché si sa, tutti i sogni, soprattutto quelli più belli, finiscono all’alba.
Ivan Andreoli