Lo scorso 13 dicembre, il Comune di Modena e la Fondazione Mario del Monte hanno organizzato presso la Camera di Commercio un convegno per fare il punto sul tema dell’housing sociale, dal tema: Abitare e convivere a Modena. E’ un bene continuare a parlare di abitazioni a prezzi sostenibili. Farlo in questo periodo di crisi economica e dopo un terremoto che ha devastato una parte della nostra provincia è ancora più meritorio.
L’analisi
I diversi relatori che si sono succeduti hanno fornito dati interessanti: in Provincia di Modena, oggi, sono state stimate almeno 20.000 famiglie povere che, con la disoccupazione in aumento, cresceranno molto velocemente. Le risorse pubbliche sono in calo e lo saranno ancora per molto tempo. In questo scenario il mercato immobiliare registra un calo vertiginoso sia delle compravendite (-25%) sia dei mutui erogati dalle banche (- 40%). Solo i prezzi delle abitazioni, ancora, non calano.
Gli alloggi popolari in Provincia di Modena sono 6.800, pari al 2% degli alloggi in affitto, una percentuale irrilevante sul mercato delle abitazioni. La vicina provincia di Reggio Emilia presenta un dato migliore, pari al 3,8%. In Italia è del 4% ed in Europa del 20%. Gli alloggi popolari sono 1.300.000 in Italia, 3.300.000 in Francia, 5.300.000 in Gran Bretagna: numeri che si commentano da soli! E’ come se le politiche abitative degli ultimi decenni non avessero preso in considerazione la presenza e l’aumento di famiglie e persone povere.
L’Italia ha una percentuale vicina all’80% di case in proprietà mentre il dato medio europeo è del 50%. Questa realtà può essere letta positivamente ma pone di fatto una forte “ingessatura” del mercato immobiliare, che non presenta la giusta “flessibilità”, una caratteristica indispensabile per favorire il “movimento” delle persone, delle famiglie e delle abitazioni, soprattutto in fasi di crisi economica come quella che stiamo vivendo.
A Modena su 93.000 alloggi, 15.000 sono indisponibili ai proprietari: invendibili, inaffittabili, affittati solo temporaneamente; 5.000 sono del tutto inutilizzati. La Fondazione del Monte ha parlato di un bisogno, oggi, in Provincia di Modena, di almeno 3.500 alloggi ad affitto calmierato. A Modena si registra 1 sfratto ogni 4 famiglie che vivono in affitto: il 4° posto in Italia in questa non invidiabile graduatoria.
Oltre ai numeri, necessari per programmare nuovi interventi, si è parlato anche di aspetti qualitativi dell’abitare, della necessità di “imparare” ad abitare, ad aver cura della casa, delle aree esterne, dei rumori, degli odori, della pulizia degli ambienti, dei consumi di energia e di spazio… Una cooperativa ha portato la sua esperienza nell’attività di “portierato sociale” e di piccole manutenzioni negli alloggi, come attività che favoriscono una migliore convivenza e il ritardato ricorso a servizi più “costosi” per la collettività, come quelli rivolti alle persone anziane scarsamente autosufficienti.
Emerge – lo rileviamo anche al Centro di ascolto Porta Aperta di Carpi – l’esigenza di una maggiore “educazione” alla gestione delle proprie risorse e spese, un affiancamento a chi non riesce a far fronte ai costi della casa, un aiuto a rivedere le priorità nelle uscite per mettere in atto “economie” che si pensava fossero relegate a un passato molto lontano.
Riflessioni e proposte
Nell’attuale congiuntura – caratterizzata dalle “3 R” ossia Risparmio, Rinuncia e Rinvio dei consumi – diventano sempre più necessari dati “scientifici” sulle case: numero di abitazioni, tipo di utilizzo che ne viene fatto, numero di case sfitte, sottoutilizzate, inutilizzate, tenute a disposizione… Sembra in crescita, soprattutto tra gli anziani, anche il fenomeno della vendita della “nuda proprietà” della casa, mantenendone l’usufrutto fino alla morte. Non è impossibile, oggi, avere questi dati. Occorre avere la volontà di trovarli e utilizzarli, interpretandone la indubbia complessità.
Case popolari. Occorre rimettere in discussione l’”eternità” dell’assegnazione, riformularne i criteri anche di permanenza perché forse in questo ambito si è fatto troppo poco. La soluzione “casa popolare” deve essere temporanea e cambiare nel tempo, seguendo i mutamenti nella composizione del nucleo familiare e dei suoi redditi complessivi.
E’ stato calcolato che i canoni di affitto delle case popolari incidono mediamente sul 12% dei redditi delle famiglie che li occupano. E’ stato altresì rilevato che, anche solo arrivare al 16% (sul mercato privato la percentuale supera il 30%) consentirebbe al “pubblico” di costruire/ristrutturare nuovi alloggi.
Le banche (molto “esposte” nel settore immobiliare) e le fondazioni bancarie (che gestiscono grandi patrimoni) dovrebbero aumentare il loro contributo alla realizzazione di questo obiettivo, investendo “in loco” quanto raccolto col risparmio di famiglie e imprese, nei decenni migliori e ancora oggi.
Si è parlato, ovviamente, anche di fondi salva sfratti, di agenzie per la casa, di fondi sociali per l’affitto… Milioni di euro – in gran parte erogati dalle fondazioni bancarie – che hanno fornito alcune “boccate di ossigeno” temporanee ma che non hanno risolto alcun problema in modo duraturo. Somme così consistenti potevano forse essere spese per acquistare alloggi già presenti sul mercato e avrebbero costituito un aiuto “permanente” al problema-casa.
Oltre all’indubbia necessità di costruire più case popolari, occorre costruire o ristrutturare più case “sociali”, quella tipologia di abitazione che si posiziona tra le case popolari e quelle a “canone concordato”, che a loro volta si collocano poco sotto quelle “di mercato”.
Si dice che servono anni per cambiare le politiche abitative, ed è vero. Si dice che le scelte passate, imperniate sulle aree PEEP, hanno dato risultati positivi ed è altrettanto vero, anche se molti aspiranti proprietari sono rimasti in mezzo al guado, costituito dal lungo e oneroso mutuo da pagare. Ciò che è evidente è che tutto questo non è stato e non è sufficiente; i problemi sono sul tavolo da anni e non si è iniziato – in una realtà dove esiste una sostanziale continuità politico-amministrativa ultrasessantennale – a “costruire” politiche abitative che siano allo stesso tempo: sostenibili nel senso di non consumare territorio; economiche nel senso di essere alla portata di persone e famiglie povere o quasi; flessibili: chi cambia, nel tempo, la composizione della propria famiglia e/o del proprio reddito, deve uscire dagli alloggi popolari e accedere a una della altre 3 tipologie di alloggi sopra richiamati. Allo stesso modo, chi peggiora la propria situazione economica dovrebbe poter scendere o salire la medesima “scala” abitativa a piccoli passi.
E’ stato detto dagli esperti intervenuti al convegno che le ultime “politiche abitative” degne di questo nome risalgono, in Italia, a Fanfani, agli Anni ’70. Nuove politiche abitative dovrebbero costituire, da anni, la principale priorità del Paese: a livello nazionale, regionale e comunale. L’ora di metterle in atto è arrivata e non è più rinviabile.
Stefano Facchini