Arrivederci Italia: perchè i giovani se ne vanno

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In questi ultimi anni, i giovani italiani si sono sentiti dire di tutto. Prima sono stati accusati di essere dei “bamboccioni” perché tendono a restare nella famiglia d’origine fino a trent’anni e oltre, pur sapendo che, nella maggior parte dei casi, non si tratta di una scelta bensì di una necessità, in quanto, senza il sostegno dei genitori, non sarebbero in grado di mantenersi. Successivamente è stato detto loro che il posto fisso è monotono per tentare di giustificare le attuali forme contrattuali che penalizzano stabilità e qualità del lavoro, alimentando il senso di precarietà e l’incertezza. Qualcun altro ancora li ha definiti pigri e “sfigati” poiché impiegano troppi anni per conseguire la Laurea, anche se molti dei laureati fuori corso hanno lavorato durante gli anni universitari per finanziarsi gli studi. E infine, si è arrivati all’ultimo appellativo attribuito dal Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali Elsa Maria Fornero:“choosy”, o per dirlo all’italiana, schizzinosi. Come era prevedibile, a quest’ultima dichiarazione del Ministro, si è levato un coro unanime di proteste sia a mezzo stampa che tramite web. Sono infatti tanti i giovani ad aver risposto a tono alla professoressa Fornero: “non sono choosy – ha scritto una ragazza a una testata giornalistica on-line – sono laureata in Lettere e Filosofia con il massimo dei voti e da due anni lavoro in un call-center per 600 al mese, facendo volantinaggio nei weekend”. E ancora: “ho fatto il mio primo caffè a 14 anni – ha scritto un’altra a un quotidiano – ho lavorato di sera in pizzeria a partire dai 16, per poi adoperarmi come dog-sitter, promoter nei supermercati, stiratrice, e contemporaneamente sono riuscita a diplomarmi e laurearmi. Tuttavia, da 3 anni vivo in Belgio perché solo qui ho potuto trovare un impiego con contratto a tempo indeterminato e possibilità di crescita”. E un altro ragazzo incalza su un blog: “ho una laurea in Scienze Politiche, un master in relazioni internazionali, vari stages alle spalle, e l’offerta migliore che ho ricevuto è stato un contratto di sei mesi che non è stato rinnovato. Ora pulisco le scale”. Anche Don Gallo si è unito al folto gruppo di contestatori delle parole di Elsa Fornero, cinguettando su Twitter: “non siamo schizzinosi. Siamo senza lavoro”. Ed è tristemente così che stanno le cose. Il mercato del lavoro è paralizzato. Le file davanti ai centri per l’impiego si ingrossano sempre più e le poche posizioni aperte sono rivolte soltanto a chi ha già maturato diversi anni di esperienza, perché le imprese, attanagliate dalla crisi, non hanno il tempo di formare neodiplomati e laureati. In defintiva, l’Italia non è un Paese per giovani e questa non è più solo una frase fatta ma una certezza assodata con il Governo Monti e la sua spending-review. Secondo i dati Istat, su 7,7 milioni di giovani, tra i 18 e i 29 anni, ben il 46,7 per cento è disoccupato, il 13 per cento è alla ricerca di un impiego,e solo il 40,3 per cento ha un lavoro. In questa Italia che crolla a picco, affondando in una crisi che soffoca le ambizioni professionali e familiari dei giovani, molti di loro si armano di coraggio e si spostano verso Germania, Inghilterra, Australia, Stati Uniti, Norvegia, Svezia e altri Paesi che, seppur parimenti coinvolti nella crisi, spalancano le porte ai giovani che possiedono talento e merito, perché sanno che sono loro la risorsa principale per tornare a crescere. Invece, da noi, spesso la porta viene aperta solo a chi ha un’amicizia influente, a scapito, oltre che dei sacri valori di giustizia e meritocrazia, anche dei risultati e dei profitti della stessa azienda. Così oggi, la nuova emigrazione non avviene con quella dose di inconsapevolezza che caratterizzava gli italiani degli inizi del Novecento quando salpavano per l’America in cerca di fortuna, partendo alla sprovvista, ma con cognizione. I giovani, con titoli di studi e competenze, fuggono dall’Italia avendo ben chiaro cosa ottenere: il lavoro e la gratificazione professionale. Questo accade sempre più spesso anche per tanti carpigiani. La situazione lavorativa italiana è paradossale e grottesca al tempo stesso: da una parte, vi è una società tuttora governata e diretta da settantenni che non vogliono mollare il potere alle nuove generazioni, dovendo di fatto mantenerle; dall’altra ci sono i figli che si trovano nella condizione di dover cercare (e trovare) strade diverse da quelle dei genitori, per riuscire a conquistare la propria indipendenza economica e farsi una famiglia. E purtroppo, accade sempre più spesso che queste strade riescano a trovarle soltanto al di fuori dai confini italiani. Il lavoro, oggi, è sempre più spesso frutto della capacità del singolo di “inventarselo” piuttosto che il risultato di un percorso professionale classico. E se l’Italia non ha più nulla da offrire, allora si è pronti a lasciarla, sebbene a malincuore. I giovani, nella speranza di trovare un’occasione professionalizzante che vada oltre lo sfruttamento pro tempore di un contratto a progetto, scelgono di abbandonare il Bel Paese, cambiando residenza, lasciando l’amata famiglia che tanti sacrifici ha fatto per farli studiare. E poi ci sono anche i giovani più ottimisti o idealisti – a seconda della prospettiva che si adotta – che sperano ancora di riuscire a farcela in Italia, ma che in ogni caso ritengono imprescindibile partire per un’esperienza all’estero, per formarsi al meglio dal punto di vista linguistico e per vedere come funzionano le cose in Europa e nel resto del mondo. Alcuni ritornano, altri invece scelgono di non tornare e per restare là, dove le chances sono maggiori e dove si può ancora sognare.
Chiara Sorrentino

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