In una società come la nostra, segnata da un accentuato individualismo, c’è ancora spazio per l’arte del donare? E, ancora, vi è la coscienza che il dono è la possibilità di innescare rapporti reciproci tra umani, qualunque poi sia l’esito? A questi interrogativi, Enzo Bianchi, fondatore e priore della Comunità monastica di Bose, ha cercato di dare una risposta durante la sua lezione dal tema: Dono – Senza reciprocità. Davanti a una piazza gremita, alle spalle del Duomo ferito, Bianchi si è soffermato dapprima sulla “perversione” del dono: “da una lettura sommaria e superficiale si può concludere che oggi non c’è più posto per il dono ma solo per il mercato, lo scambio utilitaristico, addirittura possiamo dire che il dono è solo un modo per simulare gratuità e disinteresse laddove regna invece la legge del tornaconto. In un’epoca di abbondanza si può addirittura praticare l’atto del dono per comprare l’altro, per neutralizzarlo e togliergli la sua libertà. C’è pure una forte banalizzazione del dono che viene depotenziato anche se lo si chiama carità: oggi si dona con un sms una briciola a quelli che i mass media ci indicano come soggetti – che devono restare lontani – per i quali vale la pena provare emozioni”. Ma donare è un’azione che implica un rischio, avverte Bianchi, “è un’arte difficile ma alla portata di ogni essere umano”. Donare è un movimento asimmetrico che nasce da spontaneità e libertà. “Donare – continua – significa consegnare un bene nelle mani di un altro, senza ricevere nulla in cambio. Nel dare c’è la vendita, lo scambio, il prestito, nel donare c’è un soggetto, il donatore, che nella libertà, e per generosità, per amore, fa un dono all’altro, indipendentemente dalla risposta di quest’ultimo. Potrà darsi che il destinatario risponda al donatore e si inneschi un rapporto reciproco, ma può anche darsi che il dono non sia accolto o non susciti alcuna reazione di gratitudine”. E se il dono non riceve ritorno non importa, in ogni caso, assicura Bianchi, “il donatore ha fatto un gesto eversivo: attraverso il donare ha acceso una relazione non generata dall’utilitarismo, dall’interesse”. La prima possibilità del dono avviene attraverso la parola: parola donata, data all’altro, “un sigillo sulla fiducia. Una promessa”. Ma dal dono della parola si deve tendere a quello della vita. “Questo dono estremo è possibile là dove un uomo o una donna hanno ragioni per cui vale la pena dare la vita. Sono le stesse ragioni per cui vivono, per le quali la loro esistenza trova un senso”. Dare la propria vita è però l’operazione più difficile, che urta contro il nostro senso di autoconservazione. La tentazione è quindi quella di dare, piuttosto che se stesso, cose materiali. La sfida, al contrario, è quella di “mettersi al servizio degli altri affermando la libertà, la giustizia, la vita piena”. Ma cosa significa donare se stessi? Per Bianchi “significa dare la propria presenza e il proprio tempo, impegnandoli nel servizio all’altro, chiunque sia, semplicemente perché è un uomo, una donna come noi, un fratello, una sorella in umanità. Dare la propria presenza: volto contro volto, occhio contro occhio, mano nella mano”. Ma il dono all’altro è possibile solo quando si decide la prossimità, il farsi vicino all’altro, il coinvolgersi nella sua vita, il voler stringere una relazione. “Allora, ciò che era quasi impossibile e comunque difficile e faticoso, diviene quasi naturale perché c’è in noi, la capacità del bene: questa è risvegliata, se non generata, proprio dalla prossimità, (“che chiede alle nostre viscere di soffrire insieme”) quando cessa l’astrazione, la distanza, e nasce la relazione”. Il bisogno dei bisogni è di avere qualcuno vicino. L’azione del dare richiede di essere proseguita, continuata. “Lancia una chiamata, desta una responsabilità, ispira il legame sociale”. Per entrare nella danza del dono, spiega Enzo Bianchi, “si deve donare a propria volta, aprirsi alla fiducia, all’accoglienza”. E il dono, si fa totale, estremo, nel momento in cui diventa perdono: “un atto sacrificale, di rinuncia a se stessi per il bene altrui. Un’operazione a dir poco incandescente per chi è coinvolto. Un cammino lungo e faticoso perché implica un cambiamento del cuore e non solo un’affermazione verbale”. Il perdono non nasce dalla conversione di chi ha fatto il male bensì da quella di chi ha subito l’offesa: “non è il carnefice ma la vittima a convertirsi”. Attraverso il perdono le “ferite restano, ma acquistano un senso nuovo. Rinunciando alla vendetta, l’altro torna nel nostro orizzonte come meritevole di vivere. Il perdono genera vita”. L’invito di Bianchi è evidente: solo l’amore è diffusivo. “Il dono deve passare di mano in mano. Fatelo moltiplicare, poiché non c’è gioia senza gli altri, come è vero che non c’è speranza se non sperando insieme. Ma la speranza è frutto del donare, della condivisione e della solidarietà”.
Jessica Bianchi