Stati Uniti au pair

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“Per migliorare la conoscenza della lingua inglese e conoscere da vicino una nuova cultura, non c’è nulla di meglio che vivere alla pari presso una famiglia anglofona”, questo ha pensato la ventenne carpigiana Caterina Tosi quando ha deciso di partire alla volta degli Stati Uniti. “Vivere au pair o alla pari – ci spiega Caterina, che è tornata da pochissime settimane da Port Washington, a pochi chilometri da New York – significa essere ospitati per un certo periodo di tempo presso una famiglia straniera e dare il proprio contributo in casa in cambio di vitto, alloggio e una paga settimanale. Il mio compito era esclusivamente quello di accudire i bambini”. La formula del lavoro alla pari funziona da anni. I giovani possono sperimentare una situazione nuova e apprendere – o perfezionare – una lingua straniera, e le famiglie trovano un valido aiuto per occuparsi dei loro piccoli. Solitamente i giovani au pair hanno tra i 18 e i 30 anni, tuttavia, a seconda del Paese ospitante, valgono norme differenti, come nel caso degli Stati Uniti in cui il limite d’età è di 26 anni. Con in tasca un diploma in ragioneria con indirizzo linguistico e una grande passione per i viaggi e i bambini, Caterina si è rivolta a un’agenzia di Bologna specializzata in scambi internazionali e lavoro alla pari all’estero. “Dopo aver fatto un colloquio – spiega – e aver dimostrato di possedere i requisiti necessari, sono stata immediatamente messa in contatto con una famiglia composta dai due coniugi, una bimba di tre anni e mezzo e un’altra in arrivo”. Superato l’imbarazzo iniziale, mi sono subita trovata bene nella “nuova” famiglia. Ho trovato una coppia affiatata: lei, una casalinga americana, lui, un imprenditore genovese trapiantato negli Usa e una magnifica bambina di tre anni e mezzo, Maia. Dopo solo due settimane dal mio arrivo è nata Olivia! Nell’arco degli 11 mesi in cui ho vissuto con loro, si è instaurato un bellissimo rapporto di reciproco affetto”. Caterina prosegue raccontandomi la sua giornata tipo: “mi svegliavo alle 7 per vestire e lavare Maia, prepararle lo zaino e la merenda per l’asilo. Poi, mentre la mamma l’accompagnava a scuola e faceva le commissioni giornaliere, io mi prendevo cura di Olivia. Dopo aver pranzato tutti insieme, Maia veniva riportata a casa dalla madre e passava l’intero pomeriggio giocando e divertendosi insieme a me e a Olivia che, ovviamente, data la sua tenera età, richiedeva cure e attenzioni particolari. Nonostante la convivenza con un connazionale, parlavo esclusivamente in inglese durante tutto l’arco della giornata a eccezione delle sporadiche volte in cui i genitori mi hanno chiesto di parlare un po’ in italiano alle loro figlie”. Il programma alla pari poi, prevede di disporre di una propria camera e di un certo numero di ore settimanali libere. “Fortunatamente – prosegue Caterina – alla sera non dovevo quasi mai fare babysitting e potevo uscire con le altre ragazze del programma au pair gestito dall’agenzia di New York. Una volta al mese, noi ragazze e ragazzi alla pari provenienti da tutto il mondo ci riunivamo con la coordinatrice di zona del progetto per condividere le nostre esperienze riferendo gli aspetti positivi e gli eventuali problemi riscontrati. E’ così che ho conosciuto tantissimi giovani di ogni lingua e cultura. In particolare ho stretto amicizia con Michelle, slovacca, e due ragazze tedesche: Frederike e Alena. Sono rimasta in contatto con tutte loro che stanno peraltro programmando di trascorrere l’estate proprio qui a Carpi”. Circa il 60% dei giovani alla pari negli Usa arriva dalla Germania. Per i tedeschi, l’esperienza au pair rappresenta infatti una tappa fondamentale da inserire nel curriculum vitae. Quando le domando quali differenze abbia riscontrato in mentalità e stile di vita rispetto all’Italia, Caterina non ha dubbi: “sono rimasta colpita dal modo in cui i newyorchesi pianificano la loro giornata: sono estremamente pragmatici e organizzano tutto seguendo rigorose tabelle di marcia. Odiano gli inconvenienti e i fuori programma e, contrariamente a quanto si possa pensare, sono genitori apprensivi. Con tutta probabilità è l’unico modo che hanno per reggere i ritmi frenetici che caratterizzano le giornate nell’immensa metropoli”. Di New York ciò che le è piaciuto maggiormente non è né l’Empire State Building, né Times Square o la Statua della Libertà, bensì il Grand Central Terminal, ovvero la stazione più grande al mondo per numero di banchine, celebre soprattutto per essere stata ripresa nel corso degli anni in numerosi film e produzioni televisive. “Ricordo in particolare l’orologio a quattro facce in cima al banco informazioni, il magnifico soffitto decorato con la volta stellare e i ristoranti multietnici. Un altro luogo di cui mi sono innamorata è Pier 17: uno dei moli più caratteristici di New York per i suoi ristoranti e caffè in stile europeo e la sua atmosfera romantica. Sede del mercato del pesce, all’alba si popola di una schiera di persone, ed è il punto di partenza per un suggestivo tour in traghetto intorno a Manhattan”. Pur amando la vita in Italia, Caterina non nasconde un po’ di nostalgia per la Grande Mela e, per il futuro, desidererebbe trovare un lavoro che le consenta di avere rapporti con l’estero e di viaggiare molto.

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