Questa morte non risolverà i problemi

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2 maggio 2011. Questa data resterà probabilmente negli annali per l’uccisione del leader della rete terroristica Al Qaeda, il saudita Osama Bin Laden. Secondo le fonti ufficiali, lo sceicco del terrore, come era stato soprannominato dai media, ha trovato la morte all’età di 54 anni in un blitz delle forze speciali statunitensi nei pressi di Abbottabad, una città di circa 900mila abitanti situata a 115 km a nord-est della capitale del Pakistan, Islamabad. Fanatico religioso per i suoi nemici, assassino sanguinario macchiatosi del sangue di migliaia di innocenti, con la responsabilità di aver portato guerra e sofferenza in gran parte del mondo islamico; leader carismatico per i suoi sostenitori, coraggioso e visionario, l’uomo in grado di ripagare l’Occidente per tutti i torti e le umiliazioni subite per secoli dal mondo arabo. Sicuramente una figura centrale della storia degli ultimi vent’anni. Prima sostenuto dagli americani in funzione anti-sovietica al tempo della Guerra Fredda, in seguito tra i terroristi più ricercati al mondo. Figlio di una ricca famiglia saudita che ha scelto di vivere in povertà. Leader religioso laureato in ingegneria civile. Legato a un’interpretazione rigorosa e integralista della legge islamica, ha utilizzato le più moderne tecnologie per uccidere i suoi avversari. Si riconducono a lui alcuni dei più sanguinosi atti di terrorismo dal ’98, quando 224 persone morirono negli attentati alle ambasciate statunitensi in Kenya e Tanzania, al 2008, quando due autobombe spezzarono la vita di 145 persone in Algeria. Passando per gli attentati dell’11 settembre 2001, per le bombe della stazione Atocha di Madrid, sino a quelle sulla metropolitana e sugli autobus londinesi. La sua morte, se non ha cambiato la storia, è in ogni caso una tappa significativa, se non altro per la sua portata simbolica. Ma cosa ne pensa la comunità musulmana di Carpi?
Va detto innanzitutto che sono più gli interrogativi e i dubbi che le risposte certe e i dati confermati: “Ci sono molti aspetti controversi. Ora che sono passati un po’ di giorni siamo sicuri che sia morto, ma i dubbi e le questioni irrisolte rimangono sul tavolo. Prima si diceva che il blitz è durato quattro ore, poi quaranta minuti; si è parlato di due mogli, quattro figlie e cinquanta fedelissimi con lui, ed in seguito si è detto che fosse accompagnato soltanto da una guardia del corpo che aveva l’ordine di non farlo catturare vivo; è stato dichiarato che fosse stato seppellito su un’isola, poi che il suo corpo è stato sepolto in mare; si parla di foto, ma queste non vengono mostrate. Per questo e tante altre contraddizioni nei primi giorni nessuno credeva realmente alla sua morte”. A parlare è Zaheer Anjum, da due anni segretario nazionale dell’associazione pakistana Minhaj-ul-Quran – La retta via. Con 90 filiali in tutto il mondo – di cui 10 solo in Italia – questa associazione è riconosciuta anche dall’Onu e si ispira a quella corrente del pensiero islamico che è il sufismo. “Siamo contenti della morte di Bin Laden. A livello mondiale è un grande risultato nella lotta contro quello che io non definisco neppure terrorismo, ma il male. Ha usato l’Islam per fare del male e con la sua strategia ha ucciso tanti innocenti anche tra i musulmani. Quindi la sua eliminazione è forse una soddisfazione ancora più grande per noi che per l’Occidente”. Non si può sospettare di simpatie per Bin Laden il rappresentante di un’associazione che, oltre alle molte minacce ricevute dagli integralisti islamici, ha subito anche attentati in Pakistan e il cui leader, Muhammad Tanir-ul-Qadri vive in Canada e non può tornare nella sua patria perché rischia la vita. Ma anche se la scomparsa di Bin Laden è una notizia positiva, Zaheer resta scettico: “Non cambierà nulla, perché la situazione è stata creata dai servizi segreti e dai governi, approfittando dell’estremismo islamico. Pensi che la costruzione delle madrasse – scuole coraniche – in Pakistan è stata finanziata dalla Cia al tempo dell’occupazione sovietica dell’Afghanistan, e il 90% delle armi presenti nel mio Paese sono di provenienza statunitense”. La situazione è talmente complicata da non poterla ridurre a una semplice lotta tra bene e male, tra “noi” e “loro”. Sembrano essere di questo avviso anche altri musulmani intervistati: “Secondo me Bin Laden non è morto, l’hanno già annunciato molte volte e poi si è rivelato falso – commenta Muhammad Arshad, pakistano di 43 anni, nel nostro Paese da undici, con la moglie e i due figli di 19 e 11 anni – poi avrebbero dovuto mostrare le foto, per dare al mondo una prova certa. Mi infastidisce poi il fatto che l’America sia intervenuta sul suolo di uno stato sovrano senza chiedere l’autorizzazione al Governo. Se succedesse una cosa del genere in Italia, voi non vi indignereste? Penso che Obama sia stanco, voglia ritirare l’esercito e che, per farlo, abbia dovuto dimostrare di aver portato a casa almeno un risultato”. Ancora più deciso un cittadino tunisino: “Gli americani sono gli amici del cuore di Bin Laden. L’America ha sempre fatto guerre nel mondo, ma solo quando c’è dietro un interesse economico o strategico. Non si saprà mai come sono andate realmente le cose, ma di certo non c’è l’interesse umanitario dietro i conflitti in Afghanistan e Iraq”. Altri cittadini pakistani accusano anche il proprio Governo, corrotto e troppo compiacente nei confronti della politica statunitense. Un ragazzo pakistano di 20 anni, Waleed Saif, mi mostra delle foto dal suo cellulare: da un lato un’immagine di Bin Laden da vivo, all’estremo opposto la foto circolata subito dopo la cattura – poi rivelatasi falsa – e tra le due la foto di un altro cadavere, che sarebbe l’immagine originale poi manipolata: “I video e le immagini possono ormai essere completamente falsati. Dietro questa vicenda ci sono probabilmente accordi segreti, e gli americani avevano già intenzione da tempo di controllare la regione”. Perplesso anche Ali: “L’opinione pubblica pakistana è molto arrabbiata con il suo Governo. Nelle guerre americane sono morti tanti musulmani innocenti che nulla centravano con il terrorismo. Non si vuole che il nostro paese abbia una politica indipendente, perché gli Usa hanno troppi interessi nella zona”. Mohammadi, 31 anni, che vive con Ali mentre la sua famiglia è rimasta in Pakistan mi dice – mentre sorseggiamo nella sua stanza il densissimo the pakistano – che quando ha visto la notizia della morte di Bin Laden in televisione ha pensato che fosse già morto da dieci anni: “probabilmente sulle montagne di Tora Bora, in Afghanistan. Ora ci saranno Al-Zawahiri e il Mullah Omar, ma credo che in fondo cerchino solo dei pretesti per non perdere il controllo di quei territori”. Su una cosa, però, entrambi tengono a esser chiari: “Forse in Pakistan ci sono persone che sostengono Bin Laden, ma la stragrande maggioranza della popolazione no”. A onor del vero, le opinioni che sembrano circolare nella comunità musulmana di Carpi sono le stesse che si dibattono tra gli italiani. Restano molti punti di domanda e troppi forse. Mahammed Imran, pakistano di 22 anni, in Italia con la sua famiglia da sette, sembra sintetizzare una posizione diffusa: “Prima o poi doveva succedere. Bin Laden aveva ucciso tanti musulmani, e finalmente, forse, non farà più del male. Ma non credo che questa morte basti per migliorare le cose”. Prima di salutarci, Zaheer mi dice due cose: “il Corano comanda di difendere la patria. Molti musulmani intelligenti, che in Italia hanno trovato di che vivere, qui si sentono a casa. Anch’io, che avevo 25 anni quando sono arrivato, ormai la conosco forse meglio che il mio stesso paese d’origine, e sarei il primo isolare gli estremisti, e come me tanti altri fedeli”. Ai pakistani arrabbiati con l’America dice: “non date tutta la colpa all’Occidente. Molti problemi li abbiamo creati da noi, non ribellandoci a governi corrotti e disumani. Siamo 180 milioni, ma da molti anni ci sono sempre le stesse persone nei posti di potere. Per creare giustizia per tutti bisognerebbe puntare sull’istruzione, mentre il Governo spende il 70% del suo budget per l’esercito e a scuole e ospedali destina solo l’1% del PIL”. Tra le persone che ho intervistato, molti guardano con speranza alle rivolte del Nord Africa: “Se sono veramente per la democrazia, spero possano diffondersi in tutti i paesi musulmani”. Ma è da un cittadino tunisino che sento la frase che più mi colpisce: “Hanno detto che le rivolte sono scoppiate per il pane. Sì, per il pane, ma quello spirituale: per la democrazia, la giustizia. Bene o male a sopravvivere si riesce, ci si arrangia, ma se manca la libertà manca tutto”. Se il fondatore di Al Qaeda sia veramente morto, ce lo diranno le cronache. Intanto i musulmani di tutto il mondo hanno fame, di libertà.

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