E’ una mano callosa quella che stringo quando ci incontriamo sul retro di casa, vicino all’orto. Il viso una mappa di solchi e increspature, quasi portasse incise le dune del deserto dove ha combattuto. All’inizio non ha molta voglia di parlare, Mario Marchi, carpigiano classe 1921, 90 anni a dicembre. Anche quando le parole arrivano, risalendo lente, accompagnate da una voce profonda come i brontolii di un temporale lontano, anche allora continua a scusarsi: “io non parlo tanto, certe cose preferisco tenermele chiuse dentro”. La sua storia ha un inizio preciso. Il 7 dicembre 1941 il caporalmaggiore motociclista del 62esimo fanteria Mario Marchi, dopo essere tornato da un campo d’addestramento a Siracusa, scopre d’essere uno dei quattro sopravvissuti del suo reggimento. Da qui il viaggio che l’ha portato sino in Egitto. Là dove oggi altri giovani scendono in strada per ottenere libertà, si fronteggiavano allora le truppe del generale Montgomery e quelle di Rommel, la “volpe del deserto”. “Le condizioni dell’esercito italiano – composto da gente umile come contadini, operai e muratori -erano disperate: 60 gradi di caldo, umidità, senza rifornimenti, armamenti e attrezzature adatte, costretti a mangiare carne di cammello, e bere appena un litro d’acqua al giorno, le persone morivano, più che per le pallottole, di stenti e malattie come l’entercolite cronica” che rappresentava una vera e propria piaga, simile alla dissenteria. Non basta: “si rischiava di morire anche per una piccola ferita, perché la pelle diventava dura come cuoio, ed era impossibile da ricucire”. Mario partecipò alla battaglia di Al Daba, in cui gli inglesi furono sconfitti: “poi iniziò l’odissea per arrivare ad El Alamein”. “Pensavo di dover morire – continua serio Mario, la cui unità si era ridotta da 300 a 22 effettivi – e quindi decisi che quel poco tempo che mi restava avrei voluto passarlo in moto”. Questa fu la sua salvezza: “mi assegnarono alle retrovie, a 20 km dal fronte, come portaordini. Era rischioso, ma almeno avevo la possibilità di ricevere acqua e cibo”. Fu in una di queste occasioni che, nel deserto, una scheggia d’artiglieria lo ferì alla gamba. Sopravvisse, ma le sue peripezie non cessarono: la nave che lo riportava in Italia fu affondata nei pressi di Siracusa, e lui si salvò insieme a dieci compagni. Tornato a Carpi, un giorno i tedeschi lo prelevarono “sulla provinciale vicino a via Griduzza: andavo con il bastone, perché portavo ancora i segni della ferita di guerra, ma le SS non vollero sentire ragioni. In una casa nel centro di Cortile – i tedeschi lo obbligarono a consegnare lettere – trovai un capo partigiano che era stato mio compagno di scuola, il quale mi avvisò di stare il più lontano possibile dai soldati che mi scortavano”. Quell’indicazione fu provvidenziale, perché gli consentì di ripararsi in un fosso quando, su via Cavata, i partigiani tesero un’imboscata e “spianarono una scarica di fucileria immensa”. Rimasto ferito, forse non sarebbe qui a raccontare la sua incredibile storia, se non fosse passato Padre Luca Fellini, parroco di San Marino che, legatogli le braccia con il saio della tonaca e caricatolo sulla sua bicicletta, lo trasportò all’ospedale di via Trento Trieste. “Fui interrogato per tre giorni dalle SS, fin quando un medico non mi nascose nella cantina dell’ospedale, vicino alle caldaie, perché durante la notte le Brigate Nere venivano a rastrellare i feriti, che poi sparivano senza che se ne sapesse più nulla”. Raccontando del parroco che probabilmente gli salvò la vita Mario si commuove, non riesce a contenere l’emozione: “lo persi di vista, e l’ho ritrovato dopo 20 anni. Ora ci sentiamo regolarmente”. Quando chiedo a Mario, croce al merito della Repubblica, cosa vorrebbe dire ai giovani dell’età dei suoi cinque nipoti, non ha dubbi: “Non fate mai guerre, perché portano solo sofferenze e privazioni”.
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