Tra di loro parlano arabo. Francese con il resto del mondo, condito con qualche parola italiana imparata strada facendo. Parlando, si rivolgono all’interlocutore attraverso una mescolanza variegata di lingue diverse, gesti, cenni del capo. Si arrangiano insomma. Tentano la fortuna con le loro frasi rattoppate, così simili ai loro vestiti vecchi e logori. Sono gli otto immigrati tunisini ospiti, dal 16 aprile, del Centro di prima accoglienza di Cortile. Erano arrivati in dieci, ma due di loro hanno già deciso di ripartire per congiungersi alle famiglie. Quelli rimasti, che potranno trovare accoglienza nella struttura di Cortile per sei mesi – la durata del loro permesso di soggiorno – aspettano di capire cosa fare, seguendo le indicazioni degli operatori della Cooperativa Il Mantello che, per conto dell’Ufficio Stranieri del Comune di Carpi, cercano gradualmente di insegnare loro le regole di base della comunità, e di collocarli presso un ambiente lavorativo, magari nell’auto di qualche agricoltore durante l’estate. Ma alcuni hanno fretta: Travail, lavoro, è la parola che più spesso si sente ripetere. Così per Ashref, 23 anni, ragazzo moro dagli occhi vivaci e sornioni: “Oggi me ne andrò per cercare lavoro. E’ per questo che siamo venuti qui, perché in Tunisia non esistono opportunità”. Nella loro terra, scossa dalle proteste popolari che hanno costretto il presidente Ben Ali, in carica da 23 anni, a lasciare il suo incarico, hanno lasciato famiglia, amici, relazioni. “Siamo arrivati a Lampedusa su un’imbarcazione con 120 persone a bordo – dice Camel, 25 anni – chi viaggiando quattordici ore, chi due interi giorni”. Per il viaggio, svolto in condizioni disumane e con il serio rischio di incidenti anche mortali, hanno pagato 700 euro, una cifra enorme se si pensa che il reddito medio annuo in Tunisia è di 7.100 euro, circa 19 euro al giorno. “Al centro di accoglienza di Napoli ci hanno trattato bene: abbiamo avuto cibo, medicine e vestiti – continua Muhamed, coetaneo di Camel – A Lampedusa invece eravamo in 5000, accampati con mezzi di fortuna, e ci siamo restati dieci giorni. Quando avremo abbastanza soldi e i documenti necessari torneremo nel nostro Paese”. Molti degli immigrati sbarcati sulle coste italiane non intendono restare in Italia, ma proseguire verso altre nazioni europee, per ricongiungersi ai familiari. “Quelli di noi che scelgono di fermarsi in Italia, se lo fanno, è semplicemente per poter avere di che vivere. In Tunisia ho fatto diversi lavori, tra cui cameriere e muratore, ma anche se cogliendo ogni occasione possibile, non guadagnavo abbastanza per vivere, soltanto lo stretto indispensabile per mangiare”, dice Ashref, e i suoi occhi si velano di tristezza. Perché questi ragazzi ostentano allegria, voglia di ridere e scherzare, come farebbe qualsiasi italiano della loro età, ma basta coglierli in un attimo di solitudine per scoprire che molta della loro energia serve per nascondere ed esorcizzare la paura del futuro. Quando gli chiedo cosa pensano della rivoluzione nel loro Paese, Aymen non ha dubbi: “Ben Ali e la sua famiglia sono dei mafiosi, ed è stato un bene che se ne siano andati. Ma ci vorrà molto tempo prima che in Tunisia le cose inizino ad andar meglio. Vorrei che gli italiani capissero che se veniamo qui lasciando la nostra casa non è per rubare, per fare del male. Vogliamo solo un opportunità di dimostrare che sappiamo lavorare e darci da fare”. Intanto la comunità di Cortile – grazie anche alla parrocchia – si è già mobilitata portando cibo, mentre sono già pronti altri aiuti concreti come stoviglie, vestiti. Prima di salutarci, mi chiedono qualche sigaretta. Tornando a casa, nella mia comoda casa, penso a quegli otto ragazzi meno fortunati di me. E una sola parola mi rimbomba in testa: umanità.
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