Il volto che lo schermo ci rimanda è quello intenso della scrittrice Edith Bruck. Un viso segnato il suo, nel quale ogni piccola ruga della pelle racconta un mosaico di storie. A volte terribili. Nella sua casa, annidata nel cuore di Roma, Edith fa riaffiorare i ricordi. Lentamente. Ma ricordare è una condanna, la piĂš lacerante. La condanna di ogni sopravvissuto. Edith Bruck era solo una bambina quando, a dodici anni, venne deportata dallâUngheria ad Auschwitz con la sua famiglia di origine ebraica. Un inferno, quello vissuto da questa donna, sfuggita alle marce della morte e alle selezioni del dottor Mengele e sopravvissuta alle atrocitĂ di Auschwitz, Dachau e Bergen-Belsen che viene ripercorso, in punta di piedi, con rispetto e delicatezza, dal modenese Ivan Andreoli e Fausto Ciuffi che, su sollecitazione della Fondazione Villa Emma di Nonantola, hanno realizzato il film-documentario Dove vi portano gli occhi – A colloquio con Edith Bruck. Il documentario ci restituisce, tra ieri e oggi, un ritratto di donna complesso, sfaccettato. Che si interroga, continuamente, e non solo col passato e una delle pagine piĂš macabre del Novecento. âAndate dove vi portano gli occhi, questo ci dissero dopo averci liberate dal lager, ma io e mia sorella non sapevamo dove andare. Non câera una parola buona per noi. MorĂŹ la speranza che nutrivamo, ovvero che il mondo ci chiedesse scusa per lâimmenso e indimenticabile disastro che avevamo vissuto. Siamo state totalmente abbandonate a noi stesseâ. CosĂŹ Edith Bruck descrive il ritorno nel piccolo villaggio ungherese dove era nata: âfummo quasi cacciate poichĂŠ la nostra casupola era stata occupataâ. E allo spaesamento si somma lâindifferenza del mondo: âci dicevano che anche loro avevano avuto fame e freddo. Come se tutti i freddi fossero uguali. Come se tutte le sofferenze fossero uguali. Trovammo solo orecchie sorde: nessuno voleva ascoltarci, alcuni per complicitĂ , altri per difesa, altri ancora per non turbare la loro povera vitaâ. Il mondo non voleva sapere. âSpesso pensai che sarebbe stato meglio morire nei campi piuttosto che sopravvivere a quella indifferenzaâ. Costretta al silenzio, negata due volte, la scrittura diventa salvifica: âraccontare era un bisogno incontenibile, quel che avevo dentro mi avvelenava il sangue, dovevo gridarloâ, farlo uscire. E intanto Edith sente con urgenza di doversi ritagliare un posto nel mondo, di ricostruire la propria esistenza e fugge, dapprima in Cecoslovacchia e poi in Israele. âEro nella Terra promessa, il sogno di tutti gli ebrei, ma assomigliava piĂš a un incubo. Gli ebrei nati in Israele erano violenti coi sopravvissuti, ci incolpavano di non aver lottato. Non avevano ancora capito che lottare contro lâEuropa nazifascista era impossibile. Israele era un paese appena nato allora. In guerra. Aveva bisogno di braccia armate, non aveva tempo di accarezzare le nostre feriteâ. Ed è in Italia, a Roma, che Edith, per la prima volta, sente di poter ricominciare a vivere. Unâimmagine la scrittrice ci restituisce con nitidezza, quella di alcuni operai che le offrono pane e pomodoro: âquelle mani tese verso di me mi hanno fatta sentire viva, mi hanno restituito un corpo. E allora ho pensato: questo è il mio paeseâ. Un Paese nel quale rinascere, che il documentario ci restituisce in bianco e nero, quasi a ripercorrere i chiaroscuri dellâanimo di Edith. Un animo tormentato, segnato, tanto quanto il corpo. Un corpo sopravvissuto, maltrattato. Condannabile e âpieno di senso di colpaâ. Un corpo che gli uomini âusavano con disprezzo o, al contrario, santificavanoâ. âPer anni ho lottato per non avere un figlio, vivendo malissimo la mia sessualitĂ poi, quando finalmente, sono riuscita a trovare un poâ di quiete e ho incontrato mio marito, Nelo Risi, non potevo piĂš averneâ. Un uomo sul quale Edith ha riversato âtutto il proprio amore e tutto il proprio vuoto. Troppo per le sue fragili spalle di poeta. Troppo per chiunqueâ. E allora ecco che il potere straniante e terapeutico della scrittura si riaffaccia con prepotenza: âscrivere per me è pane. Ossigeno. Eâ una necessitĂ fisica. Un dovere civileâ. Ma quanto è importante ricordare? âIo scrivo per gli altri: per quelli che sono morti e per chi deve ancora nascere. Io devo testimoniare fino alla fine. Devo dare un senso alla mia sopravvivenzaâ. E allora la scrittura diventa operazione necessaria per mantenere una promessa, quella fatta a chi, nei lager, ha perduto la vita, schiacciata dallâorrore nazista. âScrivo per i morti e per i vivi, anche se ricordare è faticosoâ. âIl peso della testimonianza è una punizione terribile ma noi sopravvissuti non demordiamo, per paura che ancora oggi qualcuno non sappia o non conosca lâorrore che si è consumatoâ. âLa mia salvezza deve essere servita a qualcosaâ.
Dopo lâanteprima che si è tenuta a Nonantola, mercoledĂŹ 25 gennaio, al Teatro Cinema Troisi, il documentario approda, in occasione della Giornata della Memoria, venerdĂŹ 27 gennaio a Roma, a Palazzo Valentini, in presenza di Edith Bruck. Una donna straordinaria che Dove vi portano gli occhi ci restituisce in tutta la sua autenticitĂ .