Al cucumbròun

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L’anguria o cocomero (citrullus lanatus) è una pianta della famiglia delle Cucurbitaceae, originariamente proveniente dall’Africa tropicale, anche nelle nostre zone ha avuto momenti di diffusa coltivazione.
E’ forse il frutto che meglio identifica l’estate, mangiata ben fresca all’ombra con gli amici in ameno conversare.
Correva l’anno 1971: ero appena tornato da Forte dei Marmi, dopo una breve vacanza dopo la scuola e passavo le giornate in giro con la mia fedele Gilera 124 cc V5, splendida nella sua livrea bianca fuori serie e nella potenza del suo motore, dotato di grande spunto. La cilindrata era stata portata dal suo primo proprietario, Paolo Righi, a 142 cc ed erano state montate le valvole maggiorate della versione 175 cc. L’estate era calda come di solito dalle nostre parti e di sera avevamo preso l’abitudine di trovarci a casa, o meglio nell’ampio giardino, di Aldo Creola in via Giovanni XXIII, quasi in angolo con via Remesina.
Eravamo sempre in tanti, almeno 10 – 15 ragazzi: ricordo Millo, Norberto Magnani, Mauro Bulgarelli, Paolo Bulgarelli, Toto Bonato, Gigia, il Capo, Giuliano Guandalini… C’erano poi due di cui non ho notizie da decenni e dei quali mi ricordo a malapena il soprannome.
Il primo era detto Bundaansa, l’origine di tale nome si è perso nella nebbia del tempo, forse perché quando raccontava le sue storie ne aumentava la portata e anche perché cercava di allargarsi nei rapporti sociali, senza avere adeguato censo o spiccata e autorevole personalità.
L’altro veniva dal centro Italia e, pur essendo un buonissimo ragazzo, aveva una faccia che Lombroso avrebbe studiato con interesse per poi destinare di certo il suo possessore in un qualche girone di malfattori. Costui non per niente era chiamato Cimino, surrogando tale nome a quello di un bandito omicida che a quei tempi era molto famoso e temuto.
(Nel 1967 il fuorilegge fu protagonista persino di una canzone; infame assassino di due fratelli gioiellieri, fu ferito in uno scontro a fuoco con la polizia a Roma. Completamente circondato nel rifugio della sua banda, Cimino cercò di farsi strada alla maniera di Butch Cassidy, uscendo e sparando all’impazzata. Fu ferito al collo, restò paralizzato e morì dopo nove mesi).
Il nostro Cimino, riccioluto e dal viso dai tratti grossolani, era però un ragazzo semplice e tutt’altro che violento: il suo grande sogno era quello di potersi comprare, anche usatissima, una Kawasaki 500 cc 2t.
Temo però che non sia mai riuscito nel suo intento.
Tornando a noi, anche quella calda sera eravamo nel giardino di Aldo, inoperosi e annoiati. Èd gnòoca a n s in ciacarèeva gnaanch! ’Sa fòmm ia? ’Sa n fòmm ia? (Di ragazze non se ne parlava nemmeno. Cosa facciamo? Cosa non facciamo?)
E così verso le dieci e mezza a qualcuno, a Cimino se non ricordo male, venne la geniale idea: “Mò perchè a nn andòmm ia a cucòmmbri? (Ma perché non adiamo in campagna a cocomere?”. (L’espressione andèer a cucòmmbri, a ùa, a piir, a pòmm, a marusticàan, ecc… – andare a cocomere, a uva, a pere, a mele e prugnette selvatiche –  non significava altro che inoltrasi nottetempo nei campi coltivati per rubare con destrezza la frutta al contadino del luogo e fuggire il più velocemente possibile, senza farsi prendere o farsi sparare nel sedere con cartucce a sale). Se tutto era tranquillo si sussurrava: “Insaaca, insaaca… ch a n gh è nisùun ch a paasa! Ma se la situazione era preoccupante: “Òcio, òcio! Dai a ùa! Maraia”. Il classico grido di allarme per i gràata ùa ed ‘na vòolta. Cun cl ùa lè a s fèeva pò al vèin… LUNÈIN, cioè fatto con l’uva rubata alla sola luce della luna. Era il vino dei camaràant di solito non di gran qualità, in quanto al buio e con una certa “fretta”, raccoglievano quello che capitava.
Con l’uva lunina si preparavano anche i sughi.
Le mele prendevano il nome di pòmm raparèin (mele rapinate). Anche i cunii (conigli rubati) erano di razza… raparèina.
Questa pratica era molto diffusa fino agli Anni ’50, quando tante famiglie cittadine facevano fatica a tirare avanti e a trovare il cibo quotidiano. E quando la rezdóora vedeva arrivare i figli con le tasche piene di frutta o altro non faceva certo troppe domande e metteva senza problemi in tavola. E’ probabile che pronunciasse tra sé la famosa frase: “Aanch pèr incóo a s è magnèe! E dmaan a gh pinsaròmm” (Anche oggi si è mangiato! Domani ci penseremo). Ma negli Anni ’60 e ’70 questa indigenza era via via completamente scomparsa. Anzi il boom e il benessere avevano portato sulle nostre tavole anche più del necessario. Andare a rubare la frutta in campagna non aveva quindi alcun senso, se non quello eccitante dell’avventura che, per quanto miserevole, dava sempre e comunque emozione, un brivido.
Aggiungete poi anche il fatto che la cocomera era stata tutto il giorno sotto il sole rovente di agosto e che certo il suo tepore non avrebbe potuto ristorare granché gli sprovveduti e ingenui manigoldi.
Sarebbe stato molto meglio andare tutti insieme presso la rinomata baracchina di Benci (Bencivenni) al Parco e prendere una bella fetta di anguria gelata e di prima qualità.
Ma tant’è!
“Mò perchè a nn andòmm ia a cucòmmbri?” esortò di nuovo lo sciagurato ideatore di quella che si sarebbe rivelata un’epica e memorabile, sfortunata impresa.
La proposta fu accolta con entusiasmo; io avevo, naturalmente, qualche personale riserva. Pensavo più che altro a mio padre poliziotto e ai suoi severi moniti di comportamento, ma lo spirito di gruppo prevalse. In pochi minuti un bel gruppetto di moto e scooter imboccava la vicinissima via Remesina puntando decisamente a nord, verso Fossoli, dove, a sentire i bene informati, c’era una melonaia adatta allo scopo. Io avevo dietro Cimino che era venuto in bici, Millo portava Bundaansa, Norberto era sul suo vespone e caricava Toto, Aldo era col suo Lui azzurro, potentissimo e scattante, truccato a 75 cc…
Passammo i binari della ferrovia sulla Remesina, dove ogni tanto di notte Paolo Bulgarelli e altri bontemponi si divertivano a fare i fantasmi con un lenzuolo in testa, spaventando la gente che passava in bici o in auto.
Poi via Ivano Martinelli, l’ex Campo di Concentramento, ancora avanti… avanti nell’oscurità della notte. Io dentro di me godevo con piacere l’inebriante ebbrezza di quest’avventura inedita ma, al contempo, ero terrorizzato dal fatto che qualcosa potesse andare storto e che mio padre, inflessibile poliziotto, lo potesse venire a sapere con tutte le tragiche (molto tragiche) conseguenze del caso.
Finalmente ci fermammo. La nostra informatissima guida aveva riconosciuto il posto giusto, già studiato e individuato durante il giorno. Al limitatissimo chiarore notturno, sulla nostra destra, si distingueva un vasto campo con degli oggetti sparsi un po’ più scuri. Erano le cocomere! “Dai mò! Andèe uèeter (Su andate voi!) ordinò uno dei piloti ai passeggeri.
Questi smontarono in fretta dalle selle e, saltato il fosso, si spinsero veloci nel campo. Io intanto, col cuore che mi batteva forte per la paura che ci scoprisse il contadino, avevo subito girato la moto verso Carpi e stavo col motore al minimo a scrutare con apprensione l’oscurità.
“Mò c’sa faan i? Dàai ! Muvìi v” (Ma cosa fanno? muovetevi).
Io non avevo dubbi: al minimo segno di pericolo eroicamente avrei abbandonato il gruppo a tutto gas. Insomma… curàag’ ch a scapòmm! (coraggio che scappiamo). Dopo alcuni interminabili minuti, vidi arrivare due che portavano qualcosa a quattro mani. “Mò ’sa fèe v? Dio a v maledissa! (cosa state facendo)”.
“Ne abbiamo cercata una grossa! Puff… puff…” fu la risposta ansimante, ma soddisfatta. In effetti ciò che stavano trasportando era un enorme cucumbròun dal considerevole peso e con un diametro almeno di 50/60 centimetri. Insomma un globo verde spropositato. Proprio una grande preda! Cimino provò a montare sulla mia moto, ma la sfera era troppo troppo voluminosa: io, lui e lei non ci stavamo. Dopo vari disperati e comici tentativi, gli ordinai perentorio: “Cimino! Dai mò! Mòunta su a l’arvèersa! (monta su alla rovescio con la cocomera sulle ginocchia).
Questi non se lo fece dice due volte, salì sulla sella, schiena contro schiena, con la cocomera strettamente abbracciata fra il petto e le ginocchia.
Via! Via! Viaaaa! A gaas avèert! A gas aperto… sì! Ma fin a un sèert puunt, perché rischiavo di perdere il passeggero e il carico al primo serio scossone. Non so ancora come facemmo ad arrivare, ma immagino la faccia di qualcuno che aveva potuto vederci durante l’interpretazione di quel buffo numero di equilibrismo circense.
Finalmente giungemmo a casa di Aldo e il suo provvidenziale cancello ci inghiottì velocemente, nascondendoci alla vista di eventuali curiosi e braghèer sempre in agguato. Sistemate le moto, il grande trofeo vegetale fu solennemente messo al centro di un basso tavolinetto che si trovava in giardino.
“Chè a gh vóol un curtèel!” disse qualcuno. Il padrone di casa ne portò subito uno, che si rivelò non troppo adeguato.
A Norberto, grande cintura nera di arti marziali estremo orientali, fu affidato l’impegnativo compito del taglio. Due volonterosi collaboratori tenevano ferma la sfera.
Un attento e teso silenzio calò sull’intera compagnia. Tutti i presenti osservavano con trepidante smania la decapitazione e attendevano l’inizio della spartizione del “prezioso” bottino, così avventurosamente guadagnato.
Norberto tentò di affondare la lama… una volta… due volte. Niente! La coccia del grosso frutto opponeva resistenza alla cruenta violazione, complice un’affilatura compromessa dal tempo e dall’uso. Un terzo colpo deciso ebbe ragione dell’ostinata scorza. Ma ecco accadere un fatto davvero singolare… Non appena la lama raggiunse la polpa rossa, un imponente getto d’acqua (Ffffffff…) schizzò fuori spinto dalla pressione interna.
L’accoltellatore con un balzo si spostò velocemente indietro per non esserne investito, così come i ragazzi più vicini.
Il getto continuò, fra la sorpresa di noi tutti, per vari secondi e alcuni litri di acqua sudicia bagnarono il tavolino e la palladiana. Ci guardammo in faccia stupiti l’un l’altro… “Ma che…?”.
A un certo punto qualcuno osservò meglio l’interno del frutto, annusò l’odore davvero disgustoso…
La realtà fu presto appurata con grande delusione e sconcerto. Avevamo preso la cocomera da semenza…
al cucumbròun da smèinsa.
Proprio quello che il contadino sceglie con cura, non despicca e lascia crescere e maturare per raccogliere poi i semi neri da essiccare e piantare l’anno successivo.
Con grande delusione raccogliemmo i miserevoli pezzi della nostra preda e, guardinghi, li buttammo in un secchio del pattume per far sparire il più velocemente possibile ogni traccia visibile del deludente misfatto.
Davvero una bella impresa! A n gh è mèel!! Và mò là…
Mauro D’Orazi
Revisione del testo di Graziano Malagoli