Vincitori e vinti: l’esempio di Dorando

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La storia, si sa, è scritta dai vincitori. Questo precetto che un tempo riguardava la ristretta cerchia dei condottieri, dei re e degli imperatori sembra, nel mondo brutalmente competitivo di oggi, estendersi a ognuno di noi. Nel business, nello studio, nella carriera e persino in famiglia quello di primeggiare, di avere successo, di diventare dei winners è forse una delle più roventi ossessioni del nostro tempo attraversando l’Occidente globalizzato da Ovest a Est. Non basta più mettercela tutta: bisogna vincere a tutti i costi. Solo così il proprio nome entrerà, se non nella storia, almeno nella cronaca come best practice esposta agli altri come esempio e modello virtuoso da seguire. Eppure anche nella storia dei grandi protagonisti, dei grandi trionfatori, vi sono esempi di chi è riuscito a compiere l’impensabile: perdere e, al tempo stesso, riuscire a oscurare la fama dei vincitori con quella della propria sconfitta. In Oriente questo apparente paradosso ha un nome ben preciso: “Hogan Biiki”, termine che, a grandi linee, significa “simpatia per il perdente”. Originariamente si riferiva alla figura di Minamoto no Yoshitsune, guerriero del dodicesimo secolo: generale e stratega brillante, Yoshitsune sconfiggerà il clan rivale Taira in una serie di vittoriose battaglie durante la Guerra Genpei (1180-1185), ma non riuscirà a trarne alcun beneficio venendo ingiustamente accusato di tradimento dal fratellastro Minamoto no Yoritomo e costretto al suicidio. Yoritomo prenderà il potere come primo Shogun del Giappone, lasciando il suo segno nella storia. Ciononostante, nei cuori di tutti i giapponesi sarà Yoshitsune a rimanere la figura più celebre, diventando protagonista nei secoli di innumerevoli opere letterarie, teatrali e cinematografiche. La leggenda del nobile perdente aveva così messo in ombra la fama dello storico trionfatore. Senza scomodare la storia con la “S” maiuscola, anche in Italia possiamo trovare un esempio di Hogan Biiki o, per meglio dire, di Dorando Biiki. Nato a Mandrio, in provincia di Reggio Emilia nel 1885 e in seguito trasferitosi a Carpi, Dorando Pietri aveva origini assai più umili di quelle del samurai di sangue nobile Yoshitsune. Era figlio di contadini e aveva iniziato a guadagnarsi da vivere come garzone in un pasticceria carpigiana.  Aveva temprato il suo fisico non con la guerra, ma con una disciplina che, ugualmente, da una battaglia aveva avuto origine: la maratona. Dopo i primi successi come podista in Italia e all’Estero, nel 1908 Dorando Pietri si trovò dinanzi alla sua sfida più grande: i quasi quarantaduemila metri della maratona delle Olimpiadi di Londra.  Alle due del pomeriggio di un rovente 24 Luglio, Pietri partì assieme a 54 altri contendenti dal Castello di Windsor. Risparmiando inizialmente le energie, Dorando iniziò dal trentaduesimo chilometro a superare tutti i suoi avversari piazzandosi in testa. Stremato dal caldo, sbagliò strada e cadde privo di sensi. Aiutato, si rialzò e corse nuovamente verso il traguardo, cadendo altre quattro volte, sempre rialzandosi. Se tra gli spettatori vi fosse stato un giapponese, gli sarebbe probabilmente tornato alla mente l’antico adagio “Cadi sette volte, rialzati otto”. Tagliò il traguardo sorretto dai giudici di gara e dai medici giunti in suo soccorso, perdendo poi i sensi. Al suo risveglio avrebbe scoperto che, proprio per questa assistenza non richiesta, era stato squalificato e la vittoria assegnata all’atleta americano Johnny Hayes. A dispetto del risultato, tuttavia, fama e onori sarebbero stati per lui. A ricompensa del suo enorme sforzo non coronato dal successo olimpico la Regina d’Inghilterra volle premiarlo con una coppa d’argento, mentre il celebre scrittore Conan Doyle presente alla gara così commentava: “La grande impresa dell’italiano non potrà mai essere cancellata dagli archivi dello sport, qualunque possa essere la decisione dei giudici”. E ancora oggi il ricordo di Dorando Pietri, nella sua città natale così come nel resto del mondo è ancora vivo. Quello del winner Johnny Hayes è invece man mano svanito dalla memoria popolare, come il sogno di una notte di primavera.
Davide Calzetti