A prova di errore è un film di Sidney Lumet del 1964 che ho incontrato sulla via della cinefilia quando ero un curioso adolescente. Mi piaceva il cinema, ci andavo anche due volte a settimana: la domenica nelle numerose sale di prima visione di cui Modena era magnificamente dotata e il martedì al cineforum dell’ARCI. La cosa che ancora oggi mi sorprende è che i film che mi piacevano non erano quelli “adatti” a un sognante giovincello, ma, pur non trascurando le commedie, i musical o i kolossal hollywoodiani, io volevo vedere i film dei grandi, quelli che mi parlavano del mondo, delle persone vere coi loro problemi e difficoltà esistenziali. Ero ansioso di crescere. Non amavo le favole e attraverso il cinema scoprivo la realtà che mi circondava e che mi aspettava. Eravamo in piena guerra fredda, il mondo era diviso in blocchi, e io ne conoscevo già i termini, vivevo come tutti, ottimisticamente speranzoso, nell’equilibrio del terrore. Ottimismo non proprio condiviso da questo Fail-Safe (titolo originale) che traduceva in immagini il romanzo omonimo di Eugene Burdick e Harvey Wheeler. Nel quadro realistico dove le due superpotenze di allora, gli Stati Uniti d’America e l’Unione Sovietica si fronteggiavano schierando ognuna la propria potenza nucleare, il racconto fanta-politico ipotizzava che per errore una bomba atomica americana colpiva Mosca. Per convincere i russi a non effettuare una rappresaglia che avrebbe innescato una guerra totale il presidente americano al telefono con quello russo, lo rassicura che si è trattato veramente di un errore e che avrebbe fatto bombardare New York per pareggiare il conto. Svelata la trama di quella catastrofica ipotesi cinematografica veniamo al film attuale di Kathryn Bigelow presentato alla recente Mostra di Venezia: A house of dynamite. Fuor di metafora la casa a rischio esplosione perché piena di dinamite è l’intero mondo nel quale ci troviamo a sopravvivere. Succede infatti che improvvisamente i sistemi di allarme, di controllo e difesa intercettino un missile nucleare, partito non si sa da dove, che entro circa 19 minuti, con poco margine di errore, potrebbe andare a schiantarsi su Chicago col suo carico distruttivo. Il film comincia citando proprio A prova di errore con una scena domestica in cui una funzionaria americana lascia la famiglia per recarsi al lavoro nella “situation-room”, struttura adibita alla sicurezza degli Stati Uniti. Seguiamo quindi per circa un terzo del film tutto quello che succede nel claustrofobico ambiente. E ne capitano davvero tante tranne la più sperata, quella necessaria a individuare il luogo di provenienza dell’ordigno e di conseguenza chi l’abbia lanciato. In poche parole non si sa chi è il nemico. Poi si passa ad altri punti di osservazione, disseminati qui e là sul pianeta e naturalmente alla casa Bianca e al Pentagono per rivivere gli stessi angoscianti 19 minuti. La struttura articolata sullo stesso arco temporale mostrato più volte dalle diverse prospettive non è nuova al cinema ma resta sempre piuttosto interessante perché permette di sviscerare il progredire della storia fin nei minimi particolari. Le tre sequenze non rispettano il tempo reale, cioè 19 minuti, ma dilatano e comprimono il tempo cinematografico come una moviola minuziosa e amplificatrice del clima di tensione e di suspence della visione, permettendo ogni sottolineatura dello stato psicologico dei personaggi che agiscono, rallentano e accelerano decisioni e indecisioni nella loro evidente impotenza, così da prolungare l’attesa del pubblico per l’agognata soluzione. C’è un nemico subdolo che non si mostra se non attraverso quel missile anonimo, e per questo ancor più pericoloso, diretto a minare la “tranquillità” e la sicurezza di chi quotidianamente si sente protetto nella sua fortezza occidentale fin nel buio di una sala cinematografica.
Se ci si adagia nel seguire il racconto senza porsi troppe domande si apprezzano diversi aspetti sia tecnici che contenutistici. Il montaggio è molto accurato, finalizzato a procrastinare e poi a negare quel sospiro di sollievo che lo spettatore attende fiducioso. I movimenti di macchina disegnano geometrie visive molto precise, attenti a cogliere ogni sfumatura delle azioni, pur contenute nello spazio chiuso da pareti fisiche e psicologiche dove vanno a sbattere paure e desideri dei vari protagonisti. Interpretazioni impeccabili e trasparenti. Non ho potuto fare a meno di ricordare il presidente americano interpretato da un intensissimo Henry Fonda nel film del ’64 e confrontarlo con l’attuale Idris Elba molto più dubbioso e incerto, a rimarcare la paradossale maggiore problematicità del mondo attuale. Incertezza e dubbi che accompagnano la regista per tutta la durata della messa in scena.
(Attenzione spolier)
E qui devo rivelare il pensiero che mi ha percorso durante tutta la visione e che si scontra con le impressioni di diversi “colleghi” festivalieri che sono usciti entusiasti dalla proiezione. Devo dire la verità, almeno la mia, poi invito ad andare a vedere il film e maturare una propria opinione. A mio parere il film comincia male, cioè con un dato di fatto un po’ fasullo. Quando il presupposto è che non si riesce a individuare il luogo di partenza del missile si fa una forzatura alla realtà, al solo scopo di indirizzare il racconto sul binario morto che poi si evidenzia. Sono invece convinto che non si muova foglia che un satellite spia non veda. Con le migliaia di oggettini che ci ronzano sulla testa non c’è uno spigolo di pianeta che non sia costantemente sotto osservazione proprio dalle strutture descritte nel film. I satelliti vedono le mosche che svolazzano sui vari letamai, figuriamoci se non colgono un missiletto appena questo sbuca dalla sua fiammeggiante rampa di lancio. Rimuginato questo pensierino, ho proseguito la mia visione col piacere di ammirare la maestria registica e la curiosità di scoprire come la sceneggiatura avrebbe condotto al prevedibile finale. Puntualmente giunto a lasciare a mezz’aria il missile, e tutti a bocca asciutta dopo tanta speranza o terrore temuti o immaginati. E non poteva andare diversamente perché oggettivamente il nemico non lo puoi dichiarare. Bigelow non se l’è sentita minimamente di sospettare la Russia o la Cina e nemmeno la Corea del Nord. Troppo rischioso lanciare accuse anche se solo in un film(?) Quindi tolti questi tre, oggettivamente nessuno è potenzialmente in grado di minacciare la superpotenza americana. Ma la cosa che forse più mi ha indisposto è che ancora una volta, sullo schermo, sono gli americani ad essere sotto attacco e a preoccuparsi di salvare il mondo. Loro che hanno riempito l’America Latina e non solo di colpi di stato, dittature e desaparecidos, bombardato Iraq, Afghanistan, Libia, solo per citarne alcuni. E non aggiungo altro sul loro sostegno al genocidio palestinese. Ma al cinema loro sono sempre i buoni, come nei western classici, salvo poi scoprire che la storia era diversa. E si è dovuto aspettare gli Anni ’70 coi Soldato blu e il Piccolo grande uomo per ristabilire chi erano i buoni e i cattivi, gli aggrediti e gli aggressori e dare finalmente una dignità e la ragione storica ai nativi di quello sterminato continente oggi abitato prevalentemente dagli eredi di quei bianchi invasori… Ma andatelo a vedere coi vostri occhi perché come tutti anch’io sono a prova di errore.
Ivan Andreoli
























