Italiani da Festival, Per grazia ricevuta

VENEZIA 82 - Quest’anno è toccato a un film italiano aprire la corsa al Leone d’oro nel Concorso principale della 82° Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia. Trattasi di La Grazia di Paolo Sorrentino. Ed è stata una felicissima sorpresa, per due motivi: il primo perché finalmente ho visto un film italiano fatto molto bene bene, piacevolmente interessante, degno di un festival internazionale; il secondo perché, a mio parere, è decisamente nuovo nella filmografia dell’autore. La parola al nostro critico cinematografico Ivan Andreoli

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Quest’anno è toccato a un film italiano aprire la corsa al Leone d’oro nel Concorso principale della 82° Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia. Trattasi di La Grazia di Paolo Sorrentino. Ed è stata una felicissima sorpresa, per due motivi: il primo perché finalmente ho visto un film italiano fatto molto bene bene, piacevolmente interessante, degno di un festival internazionale; il secondo perché, a mio parere, è decisamente nuovo nella filmografia dell’autore. E’ un ritratto a tutto tondo di un ipotetico Presidente della Repubblica italiana. Ipotetico sì, ma sintesi di pregi e difetti e soprattutto emblematico di molti veri inquilini del Quirinale che si sono succeduti nel corso di numerosi settennati. Il nostro, tale Mariano De Angelis (nome perfetto) è vedovo ma il ricordo della moglie lo insegue, soprattutto perché quarant’anni fa lei lo ha tradito senza però mai rivelargli con chi. E questo non lo fa dormire la notte ancora oggi. Gli resta una figlia che lo vuole in salute e per questo lo tiene a stecchetto, costringendolo anche a rifugiarsi sui terrazzi del palazzo per fumare una sigaretta sotto l’occhio complice del fedele corazziere. La donna è comunque anche la sua prima consigliera e assistente, perché come il padre è diventata una competente e apprezzata giurista.

Il filo conduttore annunciato dal titolo è costituito dalle decisioni che il presidente deve prendere in merito a due richieste di grazia che sono sul suo tavolo ormai da molto tempo, pervenute da due rei confessi: una donna che ha ucciso il marito nel sonno perché ripetutamente la picchiava e un uomo che ha ucciso la moglie dopo averla a lungo assistita durante il progredire della malattia di Alzheimer. Ma il regista non si accontenta e il “malcapitato” presidente, proprio mentre sta per affrontare il famoso semestre bianco deve anche pronunciarsi su una legge per l’eutanasia che il Paese (non solo nel film) attende da troppo tempo. I dilemmi morali attanagliano inevitabilmente questo emblematico personaggio chiaramente sintesi di tutta la democristianità che lo ha preceduto e che purtroppo sopravvive agli agguati del tempo e alla ormai diffusa maturazione sociale di una consapevolezza che supera pregiudiziali ideologiche e fideistiche convinzioni. Lui, persona integerrima, cattolico integro, insigne giurista soprannominato negli ambienti politici “cemento armato”, si arrovella, prende tempo, non decide, pur sollecitato dalla figlia, ma lasciato al suo “destino” anche da un Papa dal colore african-caraibico, vagamente rasta che non gli chiarisce le idee e lo saluta fuggendo su una roboante motocicletta. Il film è mirabilmente costruito su una sceneggiatura molto ben scritta, con dialoghi senza sbavature retoriche, essenziali ed esaustivi che però durante tutto il film non spostano di una virgola l’attesa delle agognate decisioni. Recitato da un cast di eccelso valore, il film sfiora livelli di sublime efficacia e maestria. Toni Servillo domina la scena con statuaria presenza, impassibilità e sicurezza consolidate, Anna Ferzetti impersona la figlia con impeccabile misura e precisa concretezza, e al duetto si aggiunge Milvia Marigliano, nei panni dell’amica di gioventù Cocò Valori che in pochi ma entusiasmanti siparietti “smonta” tutto il clima serioso che aleggia nelle austere stanze che troneggiano sul colle più alto di Roma. Non perdetevi i titoli di coda.

Di tutt’altro registro la surreale e demenziale avventura di Franco Maresco che propone Un film fatto per Bene dove per Bene non indica una qualità ma si riferisce proprio a (Carmelo) Bene. Infatti il racconto vorrebbe essere il tentativo di portare a termine la lavorazione di un film sull’attore culto del teatro italiano. Proposito immediatamente tradito perché resterà come altri, eroicamente incompiuto. Così poi la messa in scena di Maresco diventa una divertente autobiografia che ripercorre la propria filmografia a partire dal sodalizio con Daniele Ciprì. Potremmo tranquillamente parlare di meta-film dove agiscono il regista stesso, il suo disperato produttore Andrea Occhipinti, e altri personaggi che compaiono nel ruolo di sé stessi, come la sceneggiatrice Claudia Uzzo e in un brevissimo flash la fotografa Letizia Battaglia. Scorrono le famosissime immagini in bianco e nero di paesaggi desolati popolati da figure sub-umane vestite di sole mutande che davano corpo (e anima) a Cinico TV, più volte trasmesse da Fuori Orario e ricostruzioni di set cinematografici strampalati quanto inconcludenti. Maresco, già premiato a Venezia nel 2019 per La mafia non è più quella di una volta regala al pubblico odierno un film davvero molto interessante sul piano del linguaggio dove si ride spesso e volentieri, ma di cui si può assaporare anche il risvolto amaro del tempo passato e del faticoso presente, con citazioni colte e beffarde allo stesso tempo. E a farne le spese è pure l’irraggiungibile Bergman e il suo Settimo sigillo. Sul catalogo della Mostra il regista si confida: Da tempo mi sono accorto che ogni mio film non è stato altro che una trappola in cui mi andavo a infilare con impietoso autolesionismo. Per me invece, lasciarmi intrappolare nel suo lavoro è stato davvero molto rilassante, una pausa leggera nella montante marea festivaliera.   

Elisa, portato in concorso da Leonardo Di Costanzo, tratto dal saggio Io volevo ucciderla di Adolfo Ceretti e Lorenzo Natali (Raffaello Cortina editore) è la storia di una donna reclusa in un carcere modello immerso nei boschi delle Alpi della Svizzera italiana. Da dieci anni sta scontando una pena per aver ucciso apparentemente senza motivo la sorella e di averne bruciato il cadavere. A farle frequenti e costanti visite è il padre, unico legame famigliare rimasto dopo quelli bruscamente interrotti con la madre e il fratello, che probabilmente costituiscono il possibile catalizzatore dell’omicidio commesso. I libri che il padre porta alla figlia mantengono un dialogo che caparbiamente sopravvive tra i due. Poi anche le visite del genitore subiscono una repentina interruzione quando lei accetta di partecipare alla ricerca di un criminologo, che discretamente la interroga alla ricerca di una motivazione, di un segno, di una verità. Questi incontri però finiscono per destabilizzare e compromettere l’equilibrio interiore di Elisa. Lei ha sempre affermato di non ricordare nulla del tragico evento di cui si è resa colpevole. Di fronte al professore sente vacillare la sua lunga rimozione, alla sua mente riaffiorano i rapporti famigliari molto tesi, quando si trovò sulle spalle il peso dell’azienda di famiglia. Lentamente sempre nuove rivelazioni portano un po’ di luce nell’oscurità di una storia sepolta e ostentatamente dimenticata. Un film pieno di incertezze che lo spettatore deve mettere in fila per ricomporre una vicenda sempre in bilico tra detto, mostrato e taciuto. Una intelligente narrazione filmica che affascina e intriga e fa a pugni con lo sfondo di rilassanti paesaggi naturali di straordinaria bellezza. Notevole l’interpretazione di Barbara Ronchi che conserva impassibile un’espressione enigmatica che sottolinea il conflitto interiore ben mascherato ma visceralmente presente.

Valeria Bruni Tedeschi è un’attrice che mi piace molto e la ricordo in molte interpretazioni. Memorabile quella della svitata in La pazza gioia di Paolo Virzì. In quel ruolo era perfetta e un po’ di quel modo di porsi mi è sempre sembrato lo mantenga anche in molte altre sue prestazioni. Insomma il suo “marchio di fabbrica” mi pare di riconoscerlo e ritrovarlo quasi sempre nella sua colorita filmografia.

Per questo, affrontando la visione di Duse, che non è propriamente un biopic sulla mitica Eleonora, ero sinceramente dubbioso sull’adesione a un personaggio “così lontano” dalla sua indole straripante. Invece addentrandomi nella visione ho scoperto una capacità trasformistica eccezionale. L’attrice ha saputo mimetizzarsi, nascondersi nel ruolo che le era richiesto. E questo, a mio parere, è il primo dato che il film mette in mostra. Poi viene il racconto dell’ultima parte della sua vita, di un periodo storico molto particolare e delicato. L’arco temporale del film incontra Eleonora quando ha già una lunga carriera alle spalle, negli anni che dalla Prima Guerra Mondiale procedono verso l’affermazione del Fascismo. Invitata al fronte per un saluto alle truppe, resterà discreta ad ascoltare un soldato. Sul palco che le è stato preparato non sale, ma le difficoltà finanziarie cadutele improvvisamente addosso la convincono a ritornare sulla scena. La divina di un tempo nel 1909 aveva abbandonato il teatro e dopo un’unica e non troppo desiderata apparizione cinematografica nel 1916 in Cenere, diretta da Febo Mari, tratto dall’omonimo romanzo di Grazia Deledda, è costretta a cercare il suo pubblico per ritrovare un vitale sostegno economico, sfidando l’incognita di un testo inedito, scritto da un esordiente, appositamente per lei. Alla prima assiste anche l’amica e grande attrice Sarah Bernhardt, ma l’esito non è quello sperato.  La sua parabola comincia a dare segni di caduta, anche a causa della malattia che poi la condurrà alla morte. Pietro Marcello realizza una delle sue opere migliori, attenta alle ambientazioni e alle ricostruzioni storiche ottimamente fotografate. A questo proposito molto interessante l’accostamento con le immagini documentarie del viaggio del treno che trasporta la salma del Milite Ignoto da Aquileia a Roma. La sua messa in scena degli ultimi anni di Eleonora Duse è di un rigore esemplare che restituisce entusiasmi e contraddizioni, slanci e delusioni di un personaggio complesso e allo stesso tempo esile e debole, celato sotto a una esibita sicurezza e forza d’animo.

Ivan Andreoli

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