“Per evitare che l’acqua distrugga a valle, è necessario trattenerla a monte”. A parlare è l’ingegnere idraulico Federico Preti, presidente nazionale dell’Associazione Italiana per l’Ingegneria Naturalistica, nonché docente dell’Università di Firenze, che continua, “siamo dinanzi a un disastro idro-cementizio e la strada giusta è la rinaturalizzazione del territorio”.
Professor Preti cosa intende per disastro idro – cementizio?
“Credo sia importante innanzitutto distinguere tra dissesto e rischio idrogeologico, il primo è legato a fenomeni naturali come le frane, l’erosione, le esondazioni di fiumi… processi che nel corso del tempo hanno modellato il territorio; solo qualora tali fenomeni creino danni alle infrastrutture o alle persone si parla di rischio idrogeologico. Rischio sostanzialmente legato a tre fattori: alla pericolosità di certi eventi, alla vulnerabilità dei beni a essi esposti e al valore economico di quanto subisce il danno. Una pericolosità acuita anche dal cambiamento climatico: ad aumentare non è tanto l’entità del fenomeno bensì la sua frequenza in un lasso di tempo sempre più ristretto come è accaduto in Emilia Romagna.
Una regione con un enorme consumo di suolo e un alto rischio idro-geologico: l’urbanizzazione è elevata e questo significa che in caso di una forte ondata di maltempo sono principalmente le zone residenziali e industriali a essere colpite. Inoltre se un territorio è densamente antropizzato è maggiormente impermeabile e l’acqua non viene assorbita né trattenuta”.
Quali interventi è necessario mettere in atto?
“La chiave è la rinaturalizzazione del territorio, reso vulnerabile dall’aumento dell’urbanizzazione in pianura e dall’abbandono dell’entroterra. Un tempo nelle zone collinari e montuose, contadini e boscaioli, per la loro stessa sopravvivenza e la salvaguardia dei propri beni, intervenivano puntualmente nella gestione dei boschi e delle aree agricole. La costante manutenzione del reticolo idraulico minore, le cosiddette scoline, e i terrazzamenti erano in grado di trattenere e rallentare una grande quantità di acqua, lo stesso quantitativo che ora dovremo allocare nelle casse di espansione a difesa dei centri abitati. Prima esisteva una laminazione diffusa a monte che oggi, al contrario, è acqua non regimata che arriva a valle, velocemente e in quantità.
Aver arginato i corsi d’acqua salvaguarda i centri abitati ma ha di fatto aumentato il rischio: sentendosi sicuri grazie alla presenza degli argini, infatti, si è costruito di più in prossimità delle aste fluviali e ora se un argine cede o viene tracimato da un evento superiore a quello per cui l’argine è stato progettato succede un disastro. Per quanto alti e robusti possiamo fare gli argini, questi saranno sempre a rischio di essere superati soprattutto in un contesto di cambiamento climatico.
Se quell’acqua venisse laminata prima grazie all’agricoltura e al presidio del territorio e se al fiume venisse dato modo di allagare aree non antropizzate a monte, magari ricche di vegetazione ripariale, a valle arriverebbe meno acqua e in un lasso di tempo maggiore. Ora il rischio legato all’onda di piena è stato traferito a valle e questo non è accettabile.
Per ridurre al massimo il rischio di frane e inondazioni, dovremmo delocalizzare edifici e infrastrutture nelle zone a rischio, operazione costosa e non sempre fattibile, pertanto se vogliamo cercare di rendere il sistema più resiliente, lo ribadisco ancora una volta, è necessario lavorare a monte e adeguare o realizzare opere che trattengano e rallentino l’acqua. Nei centri urbani poi la parola d’ordine dev’essere deimpermeabilizzare, quindi eliminare asfalto e cemento e aggiungere vegetazione affinché porzioni di terra sempre maggiori possano assorbire le precipitazioni”.
Vi è un tema che scalda sempre gli animi: sì o no alla presenza di alberi nei corsi d’acqua e nelle aree golenali? Come dovrebbe essere fatta una corretta e puntuale manutenzione?
“La manutenzione deve essere fatta in modo capillare lungo tutto il tratto fluviale, cercando di salvaguardare quanto più possibile la vegetazione ripariale. E’ corretto parlare quindi di una manutenzione gentile ovvero di tagli e interventi selettivi su piante a rischio crollo ad esempio, perchè non dimentichiamo che gli alberi contribuiscono a rallentare la corrente dell’acqua. Non è corretto considerare sicuro un fiume dove tutta la vegetazione presente nell’alveo è stata eliminata. Vorrei poi spendere due parole relativamente ai detriti legnosi che spesso vediamo procedere lungo i corsi dei fiumi verso valle e che creano delle vere e proprie ostruzioni soprattutto in prossimità dei ponti: non è vero che lasciare la vegetazione negli alvei comporta il rischio di una maggiore presenza di tali detriti perché di fatto le piante vive fungono da filtri e li trattengono. La cura dei corsi d’acqua è costosa e impegnativa ma imprescindibile”.
Nel nostro fragilissimo Paese, di dissesto idro geologico si parla solo in caso di emergenza. E’ troppo tardi per intervenire e penso soprattutto alle zone appenniniche?
“Questo è il tema. Occorre fare i conti col fatto che abbiamo urbanizzato molto lungo i corsi d’acqua e le zone di pianura e, contestualmente, abbiamo abbandonato i territori interni. Si dovrebbe spingere sulla difesa del suolo, possibile attraverso una gestione dell’agricoltura e al presidio dei boschi simili a quelli del passato, incentivando, ad esempio, la nascita di cooperative di giovani affinché restino – o tornino – in montagna. E’ l’unica strada percorribile: il territorio va gestito e presidiato. Possono essere realizzate opere di ingegneria naturalistica che utilizzano tecniche a basso impatto ambientale in grado di accelerare il miglioramento strutturale del suolo e quello ambientale. Opere costruite con materiali naturali e reperibili in loco, come legname, pietrame o piante vive, che compensano ciò che il territorio non è più in grado di fare. Ricordiamoci che in un bosco che non conosce la mano dall’uomo, e dunque privo di scoline o terrazzamenti, non avviene la regimazione della acque. E allora, ad esempio, per contrastare i numerosi movimenti franosi presenti in Emilia Romagna, si potrebbero impiegare le piante vive come una sorta di materiale da costruzione per stabilizzare e consolidare il terreno, in abbinamento a materiali biodegradabili. Le tecniche esistono e, laddove sono state impiegate, penso ad esempio all’Alta Versilia, gli studi dimostrano che il versante è diventato più stabile e, al contempo, si è registrato un raddoppio in termini di biodiversità presente.
Oggi dobbiamo mitigare l’aumento di rischio idrogeologico, compensando gli effetti del consumo di suolo e del cambio climatico con la prevenzione tramite soluzioni basate sulla natura, ovvero realizzando interventi di Ingegneria Naturalistica con investimenti economici 10 volte inferiori a quelli necessari per la ricostruzione in emergenza post eventi catastrofici e dando opportunità di lavoro a tecnici, professionisti e giovani disoccupati.
La strada è rinaturalizzare il territorio quanto prima e pianificare interventi strutturali e non strutturali (anche delocalizzazioni di edifici) a medio e lungo termine recuperando risorse economiche da altri settori non così prioritari rispetto al disastro idrogeocementizio” .
Jessica Bianchi