Venezia incorona Pedro Almodòvar

Almodovar, premiato col Leone d'oro all'81esima Mostra d'Arte Cinematografica di Venezia, affronta un tema che non dovrebbe essere controverso. Il diritto individuale di disporre della propria esistenza, la libertà di scelta su quando e come salutare il mondo, dovrebbe essere garantito da tutte le legislazioni di ogni Paese che si professi civile. Invece la stragrande maggioranza della popolazione mondiale non gode di questo diritto fondamentale: l'eutanasia, (italiani compresi).

0
358

Era quasi scontato che il maestro spagnolo Pedro Almodòvar si aggiudicasse il Leone d’oro per aver presentato in concorso all’81esima Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia, The room next door (La stanza accanto). Il film, passato sugli schermi festivalieri a metà rassegna, è parso subito a tutti il grande favorito, anche se metà dei film in concorso non era ancora stato visto. Ma di fronte a un prodotto di tale livello l’azzardo era possibile e comprensibile. Non era invece scontato che fosse Vermiglio, di Maura Delpero a conquistare il Leone d’Argento – Gran premio della Giuria: un progetto dalle origini umili come i personaggi che rappresenta. Invece, alla luce della visione complessiva del Concorso, questi due titoli, a mio parere, erano senz’altro i migliori in gara.

Almodovar affronta un tema che non dovrebbe essere controverso. Il diritto individuale di disporre della propria esistenza, la libertà di scelta su quando e come salutare il mondo, dovrebbe essere garantito da tutte le legislazioni di ogni Paese che si professi civile. Invece la stragrande maggioranza della popolazione mondiale non gode di questo diritto fondamentale: l’eutanasia, (italiani compresi). Il film mette in scena il rapporto tra Martha (Tilda Swinton) e Ingrid (Julianne Moore), grandi amiche in giovinezza, quando entrambe lavoravano per una rivista. Poi si sono perse di vista, Martha ha speso il suo talento come reporter di guerra, Ingrid è diventata un’affermata scrittrice di romanzi di ispirazione autobiografica. Il loro re-incontro è un po’ casuale ma denso di conseguenze. Martha è colpita da un male incurabile e in mancanza di una legislazione che la tuteli, ha deciso di porre fine alla propria esistenza autonomamente, prima di dover subire la perdita delle proprie capacità decisionali. Ma per farlo ha bisogno più che mai dell’amicizia e del sostegno di un’altra persona. E la scelta non può che cadere su Ingrid, indimenticata e fidata sodale di giovanili esperienze e avventurose esuberanze. Le due avevano anche amato lo stesso ragazzo, ora un uomo disposto a offrire una provvidenziale complicità (John Turturro). Il racconto, ambientato negli Stati Uniti,  si sviluppa soprattutto sul piano verbale come è giusto che sia data l’importanza delle considerazioni e riflessioni che le due donne intrecciano tra un ricordo e l’altro. Il tutto dentro le stanze di una meravigliosa villa immersa nel verde collinoso, circondata dai rumori e dai silenzi protettivi del bosco. Raffinato e prezioso luogo scelto per l’addio. Inquadrature coloratissime e dalle geometrie precise e nitide, fotografate e dipinte come quadri di Edward Hopper, anche citato esplicitamente. Caratteristiche formali che rendono pienamente cinematografica questa trasposizione sullo schermo del romanzo What are you going through (Attraverso al vita) di Sigrid Nunez. Le due interpreti regalano al regista e allo spettatore due prove d’attrice davvero stupende e non si capisce come la Coppa Volpi per la migliore attrice sia finita a Nicole Kidman in un film tutto da dimenticare.

Dai boschi americani alle montagne trentine il salto è grande ma il paesaggio resta un protagonista importante perché raccoglie, contiene e protegge storie concrete e profonde, intense e suggestive.

Vermiglio è un piccolo villaggio in alta valle trentina, ai confini dell’Italia, dove naturalmente si parla il dialetto, ma c’è la scuola dove i bambini di ogni età frequentano l’unica classe cercando di imparare l’italiano. Lingua che un austero maestro tenta di insegnare anche la sera agli adulti. La guerra è lontana, ogni tanto solo il rumore di un aeroplano ne ricorda la presenza. E’ quel Pippo che anche io ho sentito raccontare dai miei famigliari che ne temevano le incursioni e le bombe (e ho trovato strana la coincidenza di quel nomignolo, che credevo tipico della mia zona emiliana).

Ebbene a Vermiglio trova rifugio un giovane soldato siciliano presso la famiglia di quel maestro, padre padrone di una numerosa prole, soprattutto femminile. E sarà di una delle sue figlie che il giovane siciliano che non sa né leggere né scrivere, si innamora e le dichiara il suo amore disegnandole un cuoricino su un foglietto di carta. Preferisco trascurare la trama che sarà lo spettatore a scoprire e seguire, non perché contenga chissà quali sorprese o misteri (tutt’altro), ma perché è più giusto riferire della cura che la regista, al suo secondo lungometraggio, dedica a comporre un resoconto molto dettagliato di un momento preciso della nostra storia, a descrivere un luogo lontano dove solo la posta, quando arriva, mantiene un legame col resto del mondo, a disegnare un ritratto caritatevole e quasi spietato di una condizione femminile, soggetta al patriarcato, che si trascina a volte ancora oggi. L’arco temporale di quattro stagioni è scandito soprattutto musicalmente, grazie a un grammofono su cui girano vecchi (all’ora nuovissimi) 78 giri che il maestro acquista anche sottraendo risorse all’economia famigliare. Delpero ha chiaramente presente L’albero degli zoccoli di Olmi, ma va oltre la registrazione formale e sofferta della povertà per concentrarsi sulla condizione delle donne, figlie, madri e mogli, tutte soggette alle decisioni dell’unico uomo, il capofamiglia. “Vermiglio è un paesaggio dell’anima, un lessico famigliare che vive dentro di me, sulla soglia dell’inconscio, un atto d’amore per mio padre, la sua famiglia e il loro piccolo paese”. Parole della regista bolzanina che si è formata tra Bologna, Parigi e Buenos Aires.

Il Leone d’Argento per la miglior regia è stato assegnato allo statunitense Brady Corbet, autore del chilometrico The Brutalist:  tre ore e trentacinque minuti per raccontare dell’architetto ebreo ungherese Laszlo Toth, scampato allo sterminio nazista ed emigrato negli Stati Uniti nel 1947. Il nostro, interpretato da Adrien Brody, al suo arrivo viene accolto dal cugino Attila, che si è dato un cognome americano per nascondere la propria origine e vendere meglio i suoi mobili alla clientela medio borghese. Ma presto Laszlo verrà abbandonato al suo destino anche dal cugino. Inaspettatamente però un suo lavoro rimasto incompiuto sarà il trampolino per un nuovo ingaggio da parte di un ricco (e incolto) imprenditore del posto. Inizia così quello che sarà uno dei temi principali del  film: il conflitto tra creatività e mercato o meglio, tra arte e capitale, che vede agire l’architetto come autore e titolare di un progetto artistico visto con diffidenza da una cultura ancora velatamente (ma non troppo) antisemita, in un paese che ha duramente contribuito a battere il Nazismo e ha coscientemente preso atto e documentato l’Olocausto avvenuto. Il sogno americano che l’architetto vede prender corpo a fasi alterne sembra non volere soccombere alla cruda realtà del pregiudizio. Il film, sceneggiato dallo stesso regista insieme alla moglie Mona Fastvold, è inevitabilmente dominato dalla interpretazione di Adrien Brody, che a dispetto della magrezza della propria figura, sa estrarre da se stesso caparbietà e tenacia nel difendere le proprie scelte fatte di quel cemento grezzo a vista che i francesi definivano breton brut e che nell’Inghilterra dei primi Anni ’50 del Novecento battezzavano liberamente brutalismo.

Dea Kulumbegashvili, regista georgiana che vive a Tblisi, si aggiudica il Premio speciale della Giuria per April. La storia dolorosa di Nina, una ginecologa che dopo la morte di un neonato durante il parto, viene sottoposta a un attento esame del suo operato. Ma il vero motivo dell’indagine sembra originato da voci che si rincorrono e che la reputano responsabile di aborti illegali a favore di donne in situazioni di forte disagio economico o sociale. Il ritratto di un personaggio “strano”, come se fosse anch’esso ai margini di una comunità tutto sommato benestante. Interessante da vedere e forse difficile da comprendere completamente. Contraddittorio come la realtà che la circonda.

Concludo questo primo intervento sulla 81° Mostra segnalando Ainda estoi aqui (t.l. Sono ancora qui) del regista brasiliano Walter Salles, film vincitore del premio alla miglior scenggiatura scritta da Murilo Hauser ed Heitor Lorega. Siamo in Brasile nel 1971, all’epoca soggiogato da una feroce dittatura militare. E sotto quel regime l’ex deputato Marcelo Rubens Paiva viene sequestrato e più restituito alla famiglia. Resta la moglie Eunice Paiva, madre di cinque figli, interpretata con dura e sofferta intensità da Fernanda Torres a inseguire instancabilmente i sequestratori del marito e a condurre il racconto cinematografico. Il regista conosceva personalmente la famiglia Paiva, e ha fortemente voluto realizzare questo progetto che lo ha impegnato per circa una decina d’anni. Il film ci risparmia la violenza e la crudeltà sui desaparecidos e si concentra sulla vita di chi rimane a subire l’assenza dei propri cari. Famiglie e persone mutilate dei propri affetti che non si arrendono e mantengono una fiducia e una speranza nel proprio futuro e in quello del proprio paese a volte ai limiti del possibile. Fortunatamente, a volte, tale caparbietà trova una possibile soddisfazione.

Ivan Andreoli

clicca e unisciti al nostro canale whatsapp
clicca e unisciti al nostro canale whatsapp
clicca e unisciti al nostro canale whatsapp