Recensione di “Tempi di guerra” di Gabriella Ripa di Meana (Astrolabio)

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Con due confiltti sempre più accaniti vicini ai nostri confini che ci disorientano, ci rammaricano e ci spaventano, la psicanalista romana Gabriella Ripa Di Meana ha deciso di provare a indagare come mai l’uomo non rinuncia alla guerra nel suo ultimo saggio “Tempi di Guerra” e, nel farlo, ha cercato di adottare uno sguardo contenente in sé la cura della distanza, il rispetto verso chi ci si trova in mezzo a queste guerre e non ha il tempo per riflettere e solidarizzare ma solo per agire.

L’espediente utilizzato dalla studiosa per cercare di analizzare le ragioni che ancora oggi spingono gli esseri umani a odiarsi fra di loro fino al punto di uccidersi e distruggere, è stato quello di instaurare una conversazione immaginaria con grandi psicanalisti del passato come Sigmund Freud e James Hillman, filosofi come la francese Simone Weil e scienziati come Albert Einstein.

L’autrice, sulla base di una lunga pratica clinica, si è proposta di ‘ascoltare’ la guerra con il taglio antidogmatico e plurale con cui si accolgono le formazioni dell’inconscio, facendo emergere come unica speranza impossibile quella che risiede nell’ascolto rivolto ai frammenti di senso che provengono da un altrove, spesso dimenticato quando non intenzionalmente emarginato.

L’autrice scava nei meandri del disagio della civiltà che porta all’oltraggio sottolineando come si cominci da bambini e come certe parole e schemi mentali sedimentino anche inconsapevolmente nella coscienza. Poi, attraverso alcune opere di William Shakespeare e la vera storia della scrittrice austriaca Helga Schneider la cui madre abbandonò lei e suo fratello da bambini per diventare una fedele e inespugnabile SS di leva nei campi di sterminio a Birkenau e Auschwitz, mostra come non ci possa accomodare nell’idea di un femminile, per antonomasia, pacifico, ma che anche in colei che dà la vita può infiltrarsi l’oscuro desiderio di distruggerla.

C’è spazio per il pensiero dello scrittore israeliano militante pacifista David Grossman che nel 2006 ha perso il proprio figlio soldato e che ha recentemente pubblicato sul New York Times un toccante articolo in cui esprime tutto lo sfiancamento di un popolo dichiarando che anche vincere può essere un atto tragico e assai difficilmente riparabile, e per le riflessioni di Lévi-Strauss sull’enigmatica cecità della guerra, per le riflessioni di Bertrand Russell e Gino Strada.

Il libro si conclude con ancora tanti interrogativi aperti a cui è veramente difficile rispondere ma su cui è importante discutore, e con un invito: “ascoltiamoci e ascoltiamo l’inconscio per provare a far sì che nascano menti capaci di interrogarsi, apprezzando le avventure della complicazione e della critica”.

C.S.

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