Cesare Pradella si racconta nel suo libro Da un secolo all’altro

Tutto cominciò a Concordia, nel 1937… inizia così il libro scritto dal cronista Cesare Pradella, Da un secolo all'altro (edito da Artestampa). “L’idea mi ronzava nella mente da tempo e, dal momento che a giugno compirò 87 anni, dovevo scrivere questo libro prima di diventare troppo vecchio, - ndr ride - prima insomma che vista, mano e memoria inizino a difettarmi”. Pagine nelle quali Pradella racconta episodi drammatici che hanno segnato la sua infanzia, il suo interesse per la politica e, infine, l’approdo al giornalismo. Il libro è disponibile in edicola e in libreria a partire dalla prossima settimana.

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Tutto cominciò a Concordia, nel 1937… inizia così il libro scritto dal cronista Cesare Pradella, Da un secolo all’altro (edito da Artestampa). “L’idea mi ronzava nella mente da tempo e, dal momento che a giugno compirò 87 anni, dovevo scrivere questo libro prima di diventare troppo vecchio, – ndr ride – prima insomma che vista, mano e memoria inizino a difettarmi”.

Pagine nelle quali Pradella racconta episodi drammatici che hanno segnato la sua infanzia, il suo interesse per la politica (“ero un giovane e impegnato social democratico. Una passione che mi ha portato a viaggiare moltissimo, soprattutto in Nord Europa”) e, infine, l’approdo al giornalismo.

Da un secolo all’altro – spiega – è un vero e proprio revival della mia carriera di cronista tra il Giornale di Montanelli prima e il Resto del Carlino poi, fino alle mie ultime collaborazioni come commentatore di politica e cronaca locali col settimanale Tempo prima e col giornale on line La Pressa poi”. Per quarant’anni Cesare Pradella, il “decano” dei giornalisti locali, ha raccontato Carpi e le sue dinamiche con acume e onestà intellettuale.

Diviso in capitoli, il libro consente di rivivere attraverso ritagli di giornale e titoli la storia della nostra città e non solo. “I 26 anni trascorsi al Carlino – sottolinea Cesare Pradella – sono quelli a cui sono maggiormente affezionato. Sono stati anni di lavoro intenso, perché allora fare il corrispondente ti obbligava a occuparti di tutto, dalla nera alla bianca, alla politica… e di farlo in tempi estremamente contingenti. Tutti i pezzi infatti dovevano arrivare in redazione a Modena entro le 18: era una corsa contro il tempo e nonostante il tentativo di approfondire al meglio le notizie, spesso riuscirvi era pressoché impossibile. Un periodo che ricordo davvero con grande piacere: vivevo appieno la realtà che mi circondava per poterla raccontare e commentare con quel desiderio di scoperta che anima ogni giornalista”. Un modo di fare comunicazione, consumando la suola delle scarpe e taccuino alla mano, che oggi, complice lo sbarco dei giornali on line e sui social media, sembra appartenere a un’altra epoca: “in realtà – aggiunge Pradella – questo nuovo modo di intendere e fare giornalismo non ha innalzato la qualità dell’informazione, al contrario. C’è questa smania continua di arrivare primi e pur di farlo ci si limita a scrivere tre parole e punto a capo. Notizie non sempre contestualizzate che il lettore non è in grado di comprendere appieno. A me piacciono le notizie approfondite, non quelle urlate perché si è a caccia di scoop”.

Impossibile poi per Pradella non indulgere in un pizzico di nostalgia nei confronti di “una Carpi bella e ricca. Una Carpi che non c’è più. La città in questi 40 anni si è progressivamente impoverita. A sgretolarsi sono stati dapprima il tessuto economico e a seguire quello sociale. Non abbiamo più servizi pubblici importanti come la Pretura, abbiamo perso il vescovo… Carpi non risponde alle esigenze dei suoi cittadini e ormai non ha più peso politico. Siamo meno autorevoli rispetto a un tempo e la responsabilità è da ricercare in chi, per troppo tempo, ha governato questa città. Solo da una sana alternanza possono nascere idee, spunti, voglia di fare… ed è quello che qui manca”.

La prima parte de Da un secolo all’altro è poi dedicata a un episodio che Cesare Pradella sinora non aveva voluto rievocare, ovvero l’uccisione del padre Andrea. “Nel 1944 mio padre, che era un proprietario terriero, venne rapito e ucciso dai partigiani mentre percorreva una strada a bordo del suo calesse. Nei giorni successivi alla sparizione ai mezzadri di un fondo della nostra famiglia venne riconsegnata la cavalla ma il corpo di mio padre non fu mai trovato. Al processo i presunti colpevoli furono assolti, per poi darsi alla fuga. L’omicidio di mio padre è rimasto impunito. Una pagina di storia, quella dei delitti di preti, democristiani e latifondisti, commessi durante e dopo la lotta di liberazione dai partigiani di cui si parla ancora troppo poco e sulla quale ho voluto contribuire ad alzare il velo”.

Il libro è disponibile in edicola e in libreria a partire dalla prossima settimana.

Jessica Bianchi

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