Dallo schermo con amore, al cinema arriva Povere creature

Da Venezia arriva finalmente in sala il Leone d’oro Povere creature (Poor things) del regista greco Yorgo Lanthimos, una fiaba dai risvolti profondamente attuali. Dopo il successo di C’è ancora domani di Paola Cortellesi, forse l’attenzione del pubblico femminile potrebbe o dovrebbe rivolgersi a questo racconto che vede protagonista una donna alla conquista della propria autodeterminazione. A Carpi è allo Space City.

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Tra le pellicole che hanno acceso gli schermi festivi e festosi appena trascorsi, una in particolare ha davvero brillato per la sua totale indifferenza agli schemi narrativi del cinema contemporaneo. Il

suo autore, infatti, resta fedele a una poetica fatta di inquadrature a camera fissa dove anche il movimento interno dei personaggi è ridotto all’essenziale, e a tematiche che riguardano una umanità marginale, cioè di chi vive ai bordi del consumismo e del benessere. Un mondo messo in scena con la semplicità che rispecchia quella dei personaggi. Lui è Holappa, (Jussi Vatanen) operaio in una fabbrica metalmeccanica piuttosto malmessa, vive solo ed è alcolizzato. Al nostro orecchio latino il suo nome suona già comico o tragico. Lei è Ansa (Alma Pöysti), commessa in un supermercato, addetta anche a gettare nella spazzatura i cibi in scadenza. Un giorno un sorvegliante si insospettisce e a una ispezione, viene trovata una scatoletta di cibo andato a male nella sua borsetta. Ne consegue il licenziamento in tronco. Anche il suo nome è altrettanto estraneo alle nostre consuetudini. Tuttavia non c’è affatto un gusto esotico in tutta questa stranezza, anzi: abbiamo di fronte persone in carne e ossa, non personaggi; proletari dal lavoro precario che sbarcano il lunario con fatica e sudore e che non sempre ci riescono e così annegano in una bottiglia solitudine ed emarginazione. Però queste due persone hanno il colpo di fortuna di incontrarsi e il colpo di sfortuna di non sapere come ritrovarsi. Lui infatti ha smarrito il biglietto con il numero di telefono di lei, caduto a terra e trascinato via come le foglie al vento. Disperato dentro, impassibile fuori, confessa all’amico di non sapere nemmeno il nome di quella provvidenziale ragazza. La situazione la risolve il cinema. I due infatti si cercano davanti alla sala dove insieme avevano visto un horror che hanno trovato molto piacevole e quasi romantico e nel quale due strampalati spettatori, ostentando cinefilia, trovano echi di Bresson e Godard. Il paradosso sta anche qui, non solo nella vicenda dei due protagonisti. Tutto il film, nella sua esagerata normalità si muove sul filo del paradosso. Ma se ci si lascia prendere dagli sguardi e dalle posture dei personaggi, dai dialoghi spogli e laconici, da una recitazione priva di qualsiasi enfasi, dalla fotografia dai colori smaccatamente saturi, dalle scenografie tappezzate di manifesti cinematografici, non si può non godere interiormente, in silenzio, di una comicità solo suggerita, di un riso sempre sul punto di esplodere e di un sentimento di spontanea solidarietà per quelle figure così oneste e pure. Aki Kaurismaki sembra divertirsi lui stesso nell’inanellare le scene come tanti quadri che compongono linearmente la più semplice delle storie d’amore ed è sincero nell’omaggiare senza cinematograficamente citarli, alcuni tra i più riconosciuti maestri del cinema, Visconti, Lean, Melville, Ozu, Sirk. A quest’ultimo sembra rubare il titolo (Come le foglie al vento), e contenderlo anche alla canzone di Prevert e Kosma (Le foglie morte). C’è infatti anche tanta musica e “canzonette”: tutte rigorosamente in finlandese, e di nuovo il mio orecchio si diverte a quei suoni incredibili incastrati in arie risapute ma solitamente farcite con parole dai suoni molto più

melodiosi. Quando il film finisce (troppo presto – dura solo 81 minuti), mi resta l’ombra di un sorriso prematuramente spento dalla luce della sala e della notte di fuori. E l’immagine finale ristagna nella

mente perché mi riporta all’infanzia, ai film di Charlie Chaplin visti da bambino, con il vagabondo che si allontana per mano alla sua bella verso un sole che occhieggia all’orizzonte. E ripensando a

quei volti immobili, inespressivi, volutamente comici nella loro drammaticità, mi ricompare nella mente anche l’indimenticabile silenziosa maschera di Buster Keaton. Magia del cinema!

Un altro film ha fatto del Colpo di fortuna il proprio titolo e il proprio racconto di una storia d’amore. Siamo tornati nell’Occidente delle nostre più consuete latitudini. Parigi è molto più vicina di Helsinki, e non solo geograficamente. Qui troviamo Jean (Melvil Poupaud) e Fanny (Lou de Laâge), lui di mestiere fa diventare ricche persone già ricche, lei ne è la moglie trofeo. La loro relazione è quella di una coppia ideale, ancora innamorata come il primo giorno, almeno fino a questo giorno. Perché il destino o il fato ha in serbo una sconvolgente sorpresa: Fanny incontra Alain (Niels Schneider), suo vecchio compagno di liceo che le confessa di essere sempre stato innamorato di lei. I due cominciano a vedersi e frequentarsi un po’ per caso e un po’ no e finiscono per imbastire una coinvolgente relazione extraconiugale. Tanto che lei pensa di voler o dover lasciare il marito. Marito che naturalmente si insospettisce dei comportamenti della moglie e arriva a rivolgersi a detective privati per saperne di più. Svelato l’incipit, non è il caso di continuare e lasciare allo spettatore il piacere di scoprire l’immancabile e imprevedibile colpo di fortuna annunciato da Woody Allen. Anche se questa è la prima commedia girata in francese dal regista americano, tutto il resto è come sempre tipicamente coerente col suo cinema: intreccio, personaggi, situazioni, dialoghi, battute vanno a comporre un gradevolissimo melange di thriller e commedia come già sperimentato in Crimmini e misfatti o Match point. Alla prima veneziana ci sono state riserve e problematici entusiasmi, ma al di là del fatto di non trovarsi davanti a qualcosa di veramente nuovo sotto il sole, si ride e si sorride e ad una attenta osservazione, non si possono non apprezzare notevoli invenzioni comiche, condite con giuste dosi di souspence. Coupe de chance, il titolo francese dove chance è molto di più della italiana fortuna, (chance vale anche come opportunità?) è la conferma di un autore che pone la propria creatività, votata all’ironia e al sarcasmo, al servizio di un intrattenimento intelligente e mai banale e a una sottile ma acuta presa in giro degli ambienti culturalmente aristocratici o alto borghesi.

Le feste hanno riservato fortunatamente uno spazio speciale al film che ha vinto il Leone d’Argento, Gran Premio della Giuria alla 80° Mostra del cinema di Venezia. Un piccolo gioiellino di immagini, silenzi e misurate parole sulla vicenda di un villaggio che fa della propria armonia e tranquillità la ragione della propria esistenza. Il male non esiste è un titolo enigmatico e lo stesso regista Ryusuke Hamaguchi non sa dire se sia vera o no quell’assenza. Sta di fatto che il male si presenta davvero a quella comunità sotto la veste di una società che intende costruire un lussuoso camping ai bordi del villaggio, andando a compromettere la salubrità di un fiumiciattolo, fonte vitale per tutti gli abitanti che ne raccolgono l’acqua da bere. Una messa in scena di una semplicità straordinaria, ricca di prolungate inquadrature descrittive del paradisiaco ambiente naturale, fa da contraltare alla durezza dello scontro tra l’interesse della piccola comunità rurale e quello di un capitalismo propenso a depredare l’ambiente pur di alimentare i propri guadagni. Sono due posizioni inconciliabili. E la metafora è davvero emblematica della non volontà dei poteri politici ed economici di rispettare l’ambiente e prendere atto dei cambiamenti climatici che già tanti danni provocano all’intero sistema ecologico. Il regista parte da un minuscolo episodio per evidenziare la gravità di un problema globale. Esteticamente stupendo, il film si fa apprezzare per la chiarezza espositiva, la poesia delle immagini, la bellezza del paesaggio, un angolo di mondo sopravvissuto al cemento. E’ raro trovare tanto realismo in un racconto che sfiora una fiabesca parabola. Ancora da Venezia arriva finalmente in sala il Leone d’oro Povere creature (Poor things) del regista greco Yorgo Lanthimos, questa sì una fiaba ma dai risvolti profondamente attuali. Dopo il

successo di C’è ancora domani di Paola Cortellesi, forse l’attenzione del pubblico femminile potrebbe o dovrebbe rivolgersi a questo racconto che vede protagonista una donna alla conquista della propria autodeterminazione. Tutto comincia in una clinica, a dir poco strana, nella Londra vittoriana, dove un giovane studente di medicina viene reclutato dal dottor Godwin Baxter, che si fa chiamare modestamente God, per condurre un insolito esperimento. Dovrà infatti assistere e seguire una ragazza dai comportamenti infantili, causati dal fatto che le è stato trapiantato il cervello del feto di cui era incinta. Detta così suona molto male e provoca un’evidente ripulsa, ma come ho detto siamo dalle parti del racconto fantasy, cui estrarre una morale. La sua origine letteraria proviene dall’omonimo romanzo di Alasdair Gray (Safarà editore, 2023). Il giovane medico finisce inevitabilmente per innamorarsi della ragazza che grazie alle sue cure inizia un fecondo percorso di crescita. Dalle difficoltà di imparare a parlare, studiando una parola alla volta, alla acquisizione della coscienza di sè, il passo non sarà breve e attraversa tutta la durata del film. Il percorso si dipana tra mille avventure in giro per il mondo e il “lieto fine” è una vera conquista. Un lieto fine che vale la pena seguire sullo schermo: il lungo viaggio di Bella (Emma Stone) attraverso lo spazio-tempo della sua “seconda vita” si conclude nella consapevolezza di una nuova libertà.

Ivan Andreoli

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