La resa dei medici: va in pensione anche Bacchelli ma non lascia il camice

“Dopo 37 anni di attività a Rovereto, ultimo dei miei amici e colleghi che con me hanno condiviso questo percorso, sento che è arrivato il momento di chiudere un’esperienza piena di soddisfazioni”. Il dottor Maurizio Bacchelli ha scelto di andare in pensione con un paio d’anni d’anticipo. A Tempo racconta a ruota libera la sanità di questi ultimi quarant’anni.

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“Dopo 37 anni di attività a Rovereto, ultimo dei miei amici e colleghi che con me hanno condiviso questo percorso, sento che è arrivato il momento di chiudere un’esperienza piena di soddisfazioni, grato di essere uno dei tanti operatori, sanitari e non, che hanno reso il nostro Sistema Sanitario Nazionale (SSN) uno dei migliori al mondo, con la speranza di aver contribuito a migliorare la qualità di vita dei miei concittadini. Il rammarico e la preoccupazione che ho in questo momento, come operatore e come utente, è quello di vedere il nostro SSN, nonostante gli sforzi di tanti, ridimensionarsi e impoverirsi per la carenza di risorse umane ed economiche. È una situazione che va avanti da molti anni e che il Covid ha fatto esplodere”.

Non poteva scegliere parole diverse il dottor Maurizio Bacchelli. “È finita un’epoca” ammette guardando alla sanità pubblica. Come ci siamo arrivati? Bacchelli parte da lontano ricordando la riforma dell’istruzione del 1963 con il massiccio accesso della popolazione scolastica alle scuole superiori e quella del ’69 che spalancò le porte delle università mentre il Paese viveva il suo boom economico: è il contesto in cui si colloca il fenomeno della “pletora medica”, l’esubero di medici tra gli anni ’70 e ’80. “Occorreva allora come ora superare il concorso per titoli per poter accedere alla convenzione, ma a quei tempi eravamo tanti ed eravamo costretti a una lunga gavetta fatta di turni in guardia medica, sostituzione di colleghi, levatacce alle 5.30 del mattino per andare a fare i medici prelevatori” ricorda Bacchelli.

Con l’istituzione nel 1978 del Servizio Sanitario Nazionale (SSN) venne garantito un medico ogni mille abitanti: per anni sono stati nove quelli al servizio dei diecimila abitanti del territorio comunale di Novi di Modena. “Eravamo tutti coetanei, amici da sempre, avevamo affrontato il medesimo percorso frequentando l’Università a Modena dopo aver fatto il Liceo Fanti, condividevamo un retroterra culturale intriso di sociale per cui ci era naturale partecipare alla vita della comunità di cui facevamo parte, impegnandoci in associazioni sanitarie ma non solo”. Alla stessa mia generazione appartengono medici come Bevini, Morellini, Miselli e tanti altri a cui sono serviti anni di gavetta per mettere a punto un metodo ed arrivare al massimale di 1.500 pazienti da gestire. Oggi sono sei i medici di medicina generale al servizio dei diecimila abitanti del territorio comunale di Novi, tre dei quali ad interim e si trovano a gestire situazioni che divengono ogni giorno più difficili.

“Negli anni Novanta a Rovereto Sulla Secchia avevamo sperimentato la Medicina di Gruppo condividendo i servizi di segreteria e c’era una costante tensione a migliorare, come quando riuscimmo a ottenere cinquanta milioni di attrezzature sanitarie e l’informatizzazione degli ambulatori al piano terra nella vecchia struttura del Palazzo comunale a Rovereto. Al primo piano c’era l’Ausl, di fronte gli uffici dell’Anagrafe e i Servizi sociali: una concentrazione che favoriva la popolazione e la nostra collaborazione, sostenuta da Direttori di Distretto sempre disponibili tra i quali voglio ricordare Patrizia Guidetti e la sua infaticabile collaboratrice Manuela Lorenzetti (un’amica scomparsa troppo presto a cui è intitolata la nostra Casa della Salute), Claudio Vagnini e l’attuale direttore Stefania Ascari.  Noi medici del distretto di Carpi abbiamo realizzato a quell’epoca, grazie anche alla cooperativa Meditem, che abbiamo fondato alla fine degli anni Novanta, servizi che alcuni non hanno nemmeno adesso”.

Grazie a quell’organizzazione, “abbiamo superato abbastanza bene il terremoto che, spingendo le persone ad aggregarsi, ha ridotto le tensioni individuali e sociali, a differenza della pandemia che le ha isolate tirandone fuori il peggio”.

Durante le prime fasi della pandemia, per salvaguardare il più possibile il personale sanitario, negli ospedali e negli ambulatori erano stati ridotti gli accessi e si sono sperimentate nuove modalità di comunicazione coi pazienti. “Quando l’emergenza è finita e si è lentamente tornati alla normalità, abbiamo ricominciato a fare le visite ma la gente ha considerato come acquisita una modalità di accesso fatta di un numero esorbitante di telefonate, mail, whatsapp che andavano ben oltre le normali potenzialità delle nostre segreterie e degli stessi medici. L’accumulo delle prestazioni non effettuate a causa della pandemia insieme alle richieste ordinarie ha prodotto una tale mole di richieste di prestazioni sanitarie da renderne estremamente difficile la gestione. Tanti accessi insieme alla riduzione delle risorse economiche e di personale che si sono realizzate nel tempo hanno messo ancora più in evidenza le difficoltà in cui la nostra sanità si dibatteva da anni, nonostante l’abnegazione di tanti operatori che da eroi in breve tempo sono diventati spesso oggetto di violenza verbale e in qualche caso anche materiale”.

Le condizioni di grave difficoltà in cui sono venuti a trovare molti operatori, sanitari e non, stanno producendo una crescente disaffezione che si esprime anche con l’abbandono precoce del lavoro. Iniziative anche meritevoli come la realizzazione dalle Case della Salute o della telemedicina rischiano di essere dei gusci vuoti senza che ci sia chi le deve far funzionare. La sensazione è che non ci sia la piena consapevolezza nella nostra gente della gravità della situazione e che manchi una progettualità sul medio periodo che punti a riorganizzare la sanità, “è come se si vivesse alla giornata” conclude Bacchelli.

I soldi, forse, si riusciranno a trovare ma il buco generazionale che riguarda il personale richiederà almeno 10 anni per essere colmato, e nel frattempo tanti maestri che potrebbero trasmettere il loro sapere e la loro professionalità andranno persi. “I governi degli ultimi vent’anni anni si sono ritrovati alle prese con gravi problemi di bilancio che ne hanno fortemente condizionato l’azione e hanno profondamente minato tutta la progettualità nel medio/lungo termine. Ora ne paghiamo le conseguenze”.

Il Servizio Sanitario Nazionale era stato fondato su alcuni principi fondamentali: tutti i cittadini sono uguali davanti alla malattia, tutti attingono al sistema in funzione delle loro reali necessità e vi contribuiscono per quanto possibile. La grande evasione fiscale e un utilizzo alle volte consumistico delle risorse del sistema hanno contribuito a impoverirlo e a renderlo meno efficiente e meno giusto. “Dobbiamo sempre domandarci, quando richiediamo prestazioni sanitarie, se siano realmente necessarie e se il rischio che corriamo (non ci sono prestazioni sanitarie prive di rischi) abbia un senso. Tutto quello che viene utilizzato inutilmente, sottrae risorse a chi ne ha realmente bisogno” sottolinea Bacchelli.

“Per quanto mi riguarda non sono pentito della scelta che ho fatto di pensionarmi con un paio di anni di anticipo, oggi svolgo la mia attività di libero professionista in una provincia diversa, faccio il medico palliativista all’interno di una squadra nella quale ci si confronta quotidianamente e si condivide il lavoro. Ho un’ora da dedicare alla visita del paziente, non ricevo alcuna telefonata, ho ripreso a studiare, ho la gratitudine di chi assisto e dei suoi familiari, ho grande soddisfazione personale, ne beneficia la mia salute”.

Sara Gelli

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