Social, il paradosso della solitudine

TikTok, una ‘finestra’ in cui solitudine e ritiro sociale vengono espressi apertamente

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Nell’odierna società post-moderna e post-digitale, i social network rappresentano sia un’opportunità sia un rifugio sotto cui ripararsi da una realtà percepita come intollerabile o poco affrontabile. L’individualismo imperante, che attornia e accompagna il nostro modo di vivere, unito ad una forma di narcisismo perverso, trova terreno fertile in queste piattaforme virtuali. L’autostima di ciascuno finisce per essere inghiottita, alimentata o dipesa dai like ricevuti, delegando agli altri (amici/nemici) il nostro benessere psichico, anziché a noi stessi. I contenuti condivisi mirano alla perfezione artistica e alla precisione degli elementi fotografici che irrompono nella scena. La “felicità” ostentata a tutti i costi diventa il leitmotiv che deve marchiare ogni millimetro del soggetto/oggetto rappresentato.

L’ossessione patologica per il cibo (piatti ricchi di pietanze succulenti alla #foodporn), per gli animali (soprattutto cani e gatti) e per i paesaggi (italiani e non) viene tacitamente accettata e messa in moto da tutti, indistintamente. È chiaro come si stia parlando proprio di Instagram e di Facebook (e similari). Il tocco di classe a questa particolareggiata isola felice, lo forniscono le cosiddette “storie” della breve durata di 24h, inserite a partire dal 2016 su Instagram, adottate solo dopo anche da Facebook e Whatsapp. L’invenzione di questo strano, e all’apparenza inutile, meccanismo porta con sé un suo motivo di esistere: l’importanza, ma oserei dire il bisogno viscerale, delle visualizzazioni ai contenuti che si condividono. Il fatto, cioè, di poter avere, fra le dita, la certezza di essere stati notati agli occhi dei followers. Tale senso di sicurezza contribuisce a calmare il bisogno incolmabile di ricevere conferme e rassicurazioni dall’esterno.

La solitudine e il ritiro sociale, fenomeni tutt’altro che rari in epoca nostra, sono argomenti tabù che non devono essere rivelati sui social. La mania di doversi mostrare accerchiati da un gruppo di persone (che siano amici/parenti di fatto o solo di nome), in una storia temporanea o in un post permanente, fra sorrisi reali o ipocriti, poco importa. L’importante è ricevere le visualizzazioni e i like sufficienti per placare il vuoto che ci si porta dentro, dimostrando agli altri che non si è soli (o forse sì) e che si è “normali” come tutti (o come nessuno).

Ciò, però, non accade sull’ultimo social che ha riscosso un grande successo fra giovani e giovanissimi e che si sta oramai estendendo a tutte le fasce d’età: TikTok. Questa piattaforma, rischiosa per bambini e adolescenti (vedi recenti casi di cronaca nera), ha una sua particolarità: quella di poter “scorrere”, col pollice, video verticali (popolari o meno) in un tempo pressoché infinito, sin dal primo momento in cui l’applicazione viene aperta. Questi si estendono su tutta la superficie dello schermo, dunque molto persuasivi in termini visuo-percettivi, tanto da portare ad una vera e propria forma di dipendenza. Il fascino di TikTok deriva dalla sua peculiare attitudine a romanzare e a romanticizzare la vita quotidiana, la routine, rendendola più piacevole ed attenuandone il risvolto tedioso. Ma tra simpatici monologhi, scenette tragicomiche, balletti improvvisati, botta e risposta umoristici e riprese mozzafiato di paesaggi sublimi accompagnati da colonne sonore altrettanto celestiali, si erge un lato oscuro perlopiù di natura adolescenziale (ma non sono da escludere i giovani adulti). È il lato depressivo dettato dalla solitudine che emerge con prepotenza, senza remora né vergogna. Questa tipologia di video è accompagnata, di solito, da un lento al pianoforte dal carattere pressoché nostalgico e malinconico, oppure da una pseudo melodia elettronica soffice e delicata, quasi in sordina. Tipica è la ripresa, ad immagine ferma, di un angolo della propria casa, ad esempio una finestra durante una giornata piovosa o verso l’imbrunire (come a simboleggiare il desiderio di fuga e di libertà da un senso di schiacciante prigionia), e inserite in sovrimpressione alcune frasi sparse del tipo “Ma, quindi, sono l’unico a non avere completamente amici?”, “Mi sento tremendamente solo.” “Non ho nessuno con cui passare l’estate.”, “Nessuno con cui confidarmi.”, “Nessuno con cui guardare le stelle.”, “Nessuno con cui andare al mare.”, “Nessuno con cui piangere.”, “Nessuno con cui passeggiare.”, “Nessuno con cui ridere.”.

La gravità di tali rivelazioni profonde si mostra evidente agli occhi di tutte le spettatrici e gli spettatori casuali che, scorrimento dopo scorrimento, si ritrovano ad empatizzare con quegli stessi sentimenti (chi più chi meno) che fino a quel momento non erano mai riusciti ad esprimere pubblicamente e in maniera così “nuda”. E che finiscono, in quel potente e magico istante, per sentirsi meno soli: esiste qualcun’altro come loro. Non a caso, questi brevi filmati tendono a diventare popolari, raggiungendo migliaia e migliaia di like e commenti a sostegno.

Cosa si può dedurre da questa breve riflessione? Innanzitutto, l’importanza di prendersi cura della propria salute mentale, allo stesso modo di quella fisica. Viviamo in un sistema sociale, economico, politico e culturale che è frenetico, competitivo, individualistico, dove i disturbi psicologici vengono condannati e classificati come “debolezze” da non svelare in un mondo invincibile, dove i disagi e le sofferenze – tipici dell’esistenza umana – non sono ammessi. Questa forma di castrazione e di privazione della naturale espressione del dolore è letale. L’essere umano è un animale sociale e collettivo che necessita di stare in relazione e lo Stato, la società tutta, dovrebbe agevolarlo in questo, farsene carico attraverso la promozione di iniziative e progetti che mirino a creare un senso di comunità e di sincera unione, a cominciare dall’inizio del suo percorso scolastico e formativo.

Nascondere la propria solitudine dietro ad autoscatti sorridenti, goliardiche foto di gruppo o brevi filmati autocelebranti lo scorrere della propria giornata, esprimendo tutt’altro, può funzionare come momentanea strategia di autoconvincimento. Ma se dentro ci si sente morire, occorre intervenire alla radice del problema. È chiaro che un mondo non forsennatamente competitivo e affannosamente arrivista come il nostro, in cui occorre sgomitare per poter avere un ruolo nella compagine sociale, permetterebbe di vivere molto più serenamente e in sintonia con se stessi, gli altri e la natura. Mancando ciò, sarebbe bene avere l’umiltà di accettare il proprio malessere e decidere di intraprendere un percorso di miglioramento: una prima forma di riscatto da una condizione di inerzia che, molto facilmente, ci sta divorando già da troppo tempo.

Dott.ssa Alessia Goldoni, Psicologa e Sociologa