Cominciamo da lontano, era il 1963, e io ero studente di prima media. Ogni giorno prendevo il filobus numero 6, attraversavo tutta Modena e scendevo al capolinea di Buon Pastore. Ma era dove salivo che c’era una bacheca che conteneva stimolanti locandine cinematografiche. Le illustrazioni, i titoli, le allusioni ad avventure o a drammi sentimentali, attiravano la mia attenzione, e il cinema prendeva sempre più posto fra i miei interessi fanciulleschi-quasi giovanili. Posso dire di essere stato cinefilo fin dai primi Charlot assaporati da piccolissimo. Ma fu quando vidi disegnata la sagoma in smoking di Sean Connery con la pistola in pugno simbolicamente rivolta verso l’alto che provai un irresistibile desiderio di vedere quel film, complice non secondaria la presenza di una donna in bikini che con la sua nudità contrastava l’eleganza vestita dall’agente 007. Lei era Ursula Andress e il film era Licenza di uccidere, primo e strepitoso episodio di una lunga serie. Prima apparizione di quello che sarebbe diventato e poi perennemente rimasto, l’agente segreto più famoso dell’universo cinematografico. Inutile negare il fascino del personaggio anche per un dodicenne. Tutto mi piaceva: l’eleganza dei suoi modi, l’astuta superiorità della sua intelligenza, la scaltrezza delle sue azioni, la capacità di svicolarsi nelle situazioni più pericolose e ultimo ma non secondario un fisico che penso ogni sognante maschietto avrebbe desiderato eguagliare una volta cresciuto. Un anno dopo smaniavo trepidante davanti a Daniela Bianchi che Dalla Russia con amore ammaliava il povero (si fa per dire) Bond che poi inevitabilmente ribaltava i ruoli e conquistava la preda mentre lasciava perennemente insoddisfatta la povera (stavolta sì) Miss Moneypenny. A onor del vero il film mi fece un po’ male perché io, cresciuto in una famiglia dal rosso pensiero soffrivo per le figuracce rimediate da quei sovietici sbeffeggiati dal super servitore del capitalismo. Ma sorvolai volentieri pronto a gustarmi l’imminente seguito. Che puntualmente arrivò e non potei fare a meno che restare seduto nel cinema per due proiezioni consecutive: Missione Goldfinger aveva una marcia in più. Il mio eroe si trova tra le mani oltre alle “solite donne”, una potente Aston Martin truccata che gli protegge la fuga. Ammetto che anche qui qualcosa mi stona e ci resto male: da sbarbatello foruncoloso avrei preferito fosse una Ferrari, che per ogni modenese che si rispetti è il massimo desiderabile. D’altra parte fino a quei giorni, per me tredicenne, l’unica vettura inglese capace di competere con la mitica rossa era la nera Jaguar di Diabolik. Ma non divaghiamo, mi è stato chiesto un pezzo su Sean Connery. Ebbene lo scozzese si stanca presto di fare l’agente segreto e vuole affermarsi anche in altri ruoli, com’è giusto che sia. E siccome non ci sono limiti alla provvidenza, il creatore o una madre terrena gli hanno regalato doti che gli permettono di cavarsela alla grande. Infatti se ne accorge Alfred Hitchcock che gli affida Marnie nel 1964. Ruolo non facile, quello di un marito alle prese con un segreto della moglie che ostacola la loro relazione. Thriller psicologico un po’ morboso che Connery affronta con passione, ma ancora insufficiente a staccarlo da Bond. Ci riprova nel 1965 quando Sidney Lumet lo ingaggia per La collina del disonore. Quasi un melodramma che si svolge in un campo di prigionia militare. Vederlo patire dopo i trionfi di 007, ammetto che per me, spettatore adolescente, è una sofferenza a cui avrei volentieri rinunciato. Quindi sono felicissimo di ritrovarmelo nel suo personaggio in Operazione tuono. Poi comincia il vero lungo addio all’agente segreto ed è una astinenza salutare, anche per il pubblico che vuole vederlo dimostrare la sua ecletticità. Ed è ancora Lumet a volerlo in Rapina record a New York. Qui Connery veste i panni di un “avanzo di galera” che organizza un colpaccio. E la sua è davvero una interpretazione convincente. Saltiamo la lunga filmografia che vede il nostro crescere professionalmente e dare prove di vero talento, di un carisma personale che lo elegge a star internazionale come pochi altri. E anch’io divento grande. No, io divento adulto. Però il cinema continua a piacermi e a interessarmi parecchio, così frequento assiduamente alcuni festival cinematografici e in particolare la Mostra di Venezia. Ed è lì che nel 1987 appare sullo schermo della Sala Grande Lui, il grande Sean, nei panni di Jim Malone, che insieme ad altri tre poliziotti, vuole incastrare Al Capone. Quattro Intoccabili che diretti da Brian De Palma incantano e avvincono pubblico e critica. E io sono lì, tra i primi al mondo a godere di quello spettacolo. Un privilegio raro. Un ricordo indelebile, del film e di Sean, che con quel ruolo conquista l’Oscar come miglior attore non protagonista. Memorabile la sparatoria alla stazione, con la geniale citazione della scalinata della Corazzata Petemkin di fantozziana memoria, a dimostrazione di quanto avesse torto il ragionier Ugo. Negli anni successivi è ancora Venezia a presentare al mondo l’ormai vecchio Sean nei panni del padre di Indiana Jones nella sua Ultima crociata. Come dice il proverbio gallina vecchia fa buon brodo, a cui aggiungerei che anche da un buon galletto si ottiene un ottimo arrosto e senza un filo di fumo. Una prestazione eccezionale che riporta alla memoria proprio lo 007 di un tempo. Strano connubio di generi tra il thriller e l’avventuroso dovuto inequivocabilmente al contributo di Connery anziché all’inventiva di Spielberg. Sento assalirmi dalla nostalgia per il perduto eroe sepolto nella mia infanzia e riaffiorato prepotentemente nella mia ormai consolidata maturità. E’ stato bello conoscerti James, è stato bello crescere insieme, Sean, tuffarsi nel passato per scoprire Il nome della rosa e inseguirti nel futuro tra gli sterminatori di Zardoz. Non perdiamoci di vista. Col cinema possiamo.
Ivan Andreoli