Ciascuno di noi deve ritenersi potenzialmente un portatore asintomatico

Si allunga inesorabile la lista dei medici italiani uccisi dal coronavirus. A segnalarlo è la Fnomceo - Federazione nazionale degli Ordini dei medici chirurghi e odontoiatri che porta a 145 (il dato è del 22 aprile) il totale dei camici bianchi che hanno perduto la vita. In oltre il 50% dei casi a cadere sono stati i medici di famiglia. E’ evidente che qualcosa non ha funzionato. A spiegare come è cambiato il mestiere del medico di famiglia al tempo del coronavirus è il dottor Luigi Azzolini.

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Il dottor Luigi Azzolini

Si allunga inesorabile la lista dei medici italiani uccisi dal coronavirus. A segnalarlo è la Fnomceo – Federazione nazionale degli Ordini dei medici chirurghi e odontoiatri che porta a 145 (il dato è del 22 aprile) il totale dei camici bianchi che hanno perduto la vita. C’è chi ha perso la sua personale battaglia contro Covid-19 dopo giorni spesi in prima linea contro il virus, a curare i pazienti. Chi è stato colpito a tradimento, vittima collaterale di un’emergenza, e chi aveva indossato di nuovo il camice bianco per tornare in corsia a dare una mano. In oltre il 50% dei casi a cadere sono stati i medici di famiglia. E’ evidente che qualcosa non ha funzionato.

“A Carpi – spiega il dottor Luigi Azzolini – da oltre un ventennio la medicina di base si è organizzata in modo strutturato. La maggior parte dei MMG lavora in medicina di gruppo ed è socia della cooperativa Meditem, che fornisce ai soci personale di studio e infermiere, servizi ed implementa progettualità condivisa con l’Usl soprattutto per quello che riguarda la gestione della cronicità. Il necessario e attivo coinvolgimento dei colleghi della continuità assistenziale e di chi ci sostituisce in nostra assenza, ha avuto come ritorno virtuoso quella di aver reso omogeneo l’approccio ai pazienti e la gestione delle situazioni sanitari. Mi sento di dire che nel nostro distretto esiste una ben rodata equipe territoriale (MMG, GM, CA, infermiere del SADI e di cui ora fa parte anche le Usca – Unità Speciali di Continuità Assistenziale) e credo che questo abbia giocato un ruolo fondamentale anche all’inizio di questa emergenza. Già alla fine di febbraio, su decisione dell’Usl pienamente recepita dai MMG, abbiamo immediatamente ridotto l’accesso agli studi di medicina generale impedendolo di fatto a chi aveva sintomi sospetti (similinfluenzali) e questo per tutelare i pazienti e noi stessi da possibili contagi. I pazienti sospetti venivano immediatamente ricontattati per telefono e gestiti di giorno in giorno per cogliere l’evoluzione dei sintomi e prendere decisioni (come l’invio in Pronto Soccorso). E’ molto probabile che all’inizio della pandemia possiamo aver visitato pazienti che poi hanno sviluppato il covid ma la serrata tempestiva ha permesso di contenere quei danni che invece si sono verificati altrove”.

Molti medici di medicina generale, soprattutto nella fase iniziale hanno dichiarato di essere stati abbandonati. Lasciati soli a gestire un’emergenza senza precedenti. E’ stato così anche a Carpi? Ad oggi l’Ausl vi ha rifornito dei necessari dispositivi di tutela o c’è ancora carenza?

“Ricordo all’inizio dell’emergenza di aver chiamato il Pronto Soccorso per chiedere un po’ di mascherine e mi sono sentito rispondere che non ne avevano a sufficienza nemmeno per loro. L’Ausl ha fatto il possibile, dandoci quel che poteva, seppur col contagocce. Non siamo mai rimasti senza del tutto ma all’inizio l’approvvigionamento è stato innegabilmente difficile.

E’ evidente che tutti i medici morti in questi mesi sono entrati in contatto con pazienti positivi non dovutamente protetti. Anche qui, verso la metà marzo si sono ammalate persone di covid che noi avevamo visitato 10 – 15 giorni prima di iniziare a prendere le necessarie precauzioni e a quel punto abbiamo incrociato le dita. Solo un medico di famiglia in città, a quanto ne so, è risultato positivo al tampone senza avere sintomi e ha già ripreso l’attività dopo la quarantena. Quindi anche noi medici di medicina generale siamo in trincea e, pur non avendo la visibilità mediatica di chi lavora nei reparti con pazienti covid (a cui va tutta la mia ammirazione), abbiamo un ruolo fondamentale soprattutto oggi che la strategia adottata per combattere il virus è cambiata”.

Per contenere le ospedalizzazioni, infatti, oggi l’indicazione regionale è quella di aggredire il virus all’interno delle case quando i sintomi sono ancora lievi. All’esordio. Per tale motivo anche nella nostra città sono state istituti le Usca, le unità sanitarie di continuità assistenziale. La situazione sta migliorando? 

“Certo. Noi restiamo i primi referenti dei nostri pazienti che ci chiamano qualora non si sentano bene, e se noi ravvisiamo una sintomatologia riconducibile al covid programmiamo il tampone e attiviamo più precocemente di quanto facevamo nelle prime settimane i colleghi dell’Usca che si recano al domicilio per visitare i pazienti e condividono in tempo reale con il MMG la scelta terapeutica più opportuna per quel paziente”.

Da alcune settimane è disponibile anche in Azienda Usl di Modena, in base a un protocollo approvato da AIFA – Agenzia Italiana del Farmaco, una terapia per l’infezione da coronavirus a base di idrossiclorochina. Principio che pare migliorare l’evoluzione della malattia, riducendone le complicanze. Prima di tale protocollo come gestivate i sintomi?

“Nelle fasi iniziali i protocolli condivisi raccomandavano una stretta sorveglianza telefonica dei casi sospetti e l’utilizzo di farmaci sintomatici per il controllo dei sintomi (febbre e tosse) non essendo la patologia da Covid inizialmente distinguibile da una normale influenza che quest’anno si è sovrapposta come periodo di incidenza. Il sintomo cardine di cui dovevamo cogliere l’insorgenza era (ed è tuttora) la dispnea, cioè la difficoltà a respirare il che induceva – e tuttora induce – al ricovero. Per cui si trattava di chiamare i pazienti sospetti tutti i giorni per sapere come stavano, molto spesso per rassicurarli ma soprattutto per sapere se iniziavano a respirare con fatica, per cui si procedeva al ricovero. In più occasioni ho avvertito un certo senso di impotenza perché non erano ancora disponibili farmaci da usare precocemente che evitassero la complicazione polmonare perchè c’erano troppe incertezze sulla loro efficacia. Come è logico che sia in una situazione come quella che stiamo vivendo, un film mai visto prima, l’aggiornamento e l’implementazione continua di nuovi approcci e comportamenti terapeutici è inevitabile. La mission attuale è cercare di individuare precocemente i pazienti covid per poterli trattare a domicilio dato che sono stati messi a punto protocolli terapeutici da usare precocemente e risultati efficaci per cui il paziente può guarire a casa.

L’idrossiclorochina, l’azitromicina, il cortisone, la terapia anti trombotica sono farmaci che si possono essere usati a domicilio ma sotto stretto controllo del MMG che conosce le eventuali criticità di ogni singolo paziente, comprese le patologie concomitanti e le eventuali controindicazioni al trattamento”.

Quanti sono i pazienti Covid positivi o potenzialmente tali che ha in carico?

“Di cui sono sicuro una quarantina circa. Se i dati ufficiali parlano di quasi 500 casi nel carpigiano, sono convinto che nella realtà i contagiati siano molti di più. A oggi ciascuno deve ritenersi potenzialmente un portatore asintomatico e quindi comportarsi di conseguenza, ricorrendo cioè all’uso delle mascherine, limitando gli spostamenti allo stretto necessario, mantenendo il distanziamento fisico e lavandosi spesso le mani. Queste sono le uniche armi che abbiamo a disposizione per difendere noi stessi e chi ci circonda. E sarà così ancora per lungo tempo, a prescindere da eventuali allentamenti delle misure governative”.

L’Ausl di Modena ha iniziato a sottoporre anche a Carpi medici di famiglia e pediatri di libera scelta a test sierologoci. Come giudica tale attività di screening?

“Questo è uno screening di tipo epidemiologico e statistico. Un modo per comprendere, a fine indagine, quanti medici, ad esempio, sono entrati in contatto col virus. E poi, via via, sommando i risultati ottenuti sui vari campioni di popolazione farsi un’idea di quanti abbiamo sviluppato una risposta immunitaria nella popolazione. Siamo curiosi certo ma le incognite sono ancora troppe perchè alla presenza di anticorpi non sappiamo ancora che valore dare: sono realmente protettivi oppure no e se lo sono, per quanto tempo? Oggi tanti pazienti chiedono di potersi sottoporre a questo tipo di controlli ma vorrei ribadire che non sono esaustivi e, per di più, devono essere ripetuti nel corso del tempo. Insomma dovremo continuare a proteggerci perché i test sierologici sono ben lungi dall’essere un patentino di immunità”.

Sugli operatori ospedalieri asintomatici e in prima linea nei reparti covid è partita lo scorso 18 aprile, certo tardivamente, una campagna a tappeto di tamponi. E voi?

“Inizialmente li abbiamo chiesti ma la risposta era sempre la stessa: se state bene non lo facciamo ma voi adottate ogni possibile misura di protezione. La motivazione addotta? Se si rilevano positività e saltate voi, molti pazienti restano senza medico e rischiamo afflussi immotivati al Pronto Soccorso e in Ospedale. E così ha prevalso il buonsenso e il tampone è stato fatto, perlomeno all’inizio, solo sui sintomatici”.

Molte persone che sono state a contatto con malati o che hanno presentato sintomi lievi denunciano il fatto di non essere mai stati sottoposti a tampone e, dunque, una volta spariti i sintomi, nonostante i lunghissimi tempi per negativizzarsi, sono tornati al lavoro. Reticenza o mancanza di tamponi?

“Ricordo che tra il 10 e il 15 marzo qualche paziente lamentava la scomparsa di olfatto e gusto ma tali sintomi non erano ancora stati ricondotti al covid mentre oggi ne sono parte integrante. Lo ripeto, questo è un film che non ha mai visto nessuno e in ogni fase della gestione della malattia ci sono state zone grigie nelle quali ancora oggi non sappiamo quale possa essere la strategia perfetta ma ci stiamo arrivando. All’inizio i tamponi sono stati fatti in modo selezionato, aveva senso farli a tappeto? Forse sì, forse no. Ora sappiamo che se sei asintomatico ma con una carica virale bassa, il tampone risulta negativo ma magari ti positivizzi il giorno successivo. E allora perché impiegare risorse umane già provate dall’emergenza per effettuare un tampone spesso non definitivo? Col senno del poi giudicare è facile ma io credo non si potesse fare di meglio. Ripeto, il tampone non mette al sicuro nessuno, occorre comportarsi bene, utilizzando mascherina e adottando il distanziamento fisico”.

Col Covid dovremo convivere ancora a lungo, come si dovrebbe attrezzare a suo parere il sistema sanitario e assistenziale del territorio per alleggerire la gestione ospedaliera che deve farsi carico anche di tutte le altre patologie? 

“Il virus ragionevolmente non sparirà e dunque occorrerà anche esercitare il massimo controllo sugli accessi in ambulatorio e nei poliambulatori per tutelare i pazienti e chi visita. Qui da noi esiste una territorialità forte, dove i vari attori operano in sinergia. Condivisione è la parola chiave che contraddistingue il lavoro di medici di medicina generale, infermieri del territorio, guardia medica… e tutto questo ha una ricaduta positiva sui pazienti con i quali intratteniamo uno stretto rapporto fiduciario.

Le situazioni drammatiche possono anche offrire l’occasione per riflettere sul nostro operato. In 35 anni di servizio ho visto crescere in modo esponenziale i bisogni di salute delle persone con un inevitabile aumento di prestazioni diagnostiche e terapeutiche. Un confronto proficuo con gli altri attori della sanità potrebbe rivelarsi utile per arrivare a una gestione più equa ed efficace delle risorse economiche e umane disponibili individuando priorità e limitando eccessi e sprechi. Per esempio la domiciliarità, su cui intenti dei MMG e dell’Usl sembrano confluire: le persone devono essere curate il più possibile a casa, soprattutto i cronici, sfruttando la medicina di base già strutturata in medicina di gruppo e anche la futura Casa della salute che offrirà servizi diversificati (ad esempio ambulatori dedicati alle specifiche patologie croniche, gestiti dai MMG e dal loro personale infermieristico e dallo specialista di riferimento, e che oggi sono già presenti presso la sede della cooperativa MediTem). La relazione tra colleghi, compresi gli specialisti, dev’essere privilegiata per favorire la territorialità e preservare le strutture ospedaliere per gli acuti. L’emergenza ha anche portato qualche miglioramento gestionale. Ad esempio ora si va in farmacia solo con il tesserino sanitario a ritirare le ricette dematerializzate che il medico ha fatto. Oppure la possibilità di interloquire coi propri pazienti con modalità fino a ora proibite dalla legge sulla privacy (mail, sms) e sicuramente utili per evitare spostamenti dei pazienti. Procedure che hanno reso il nostro lavoro più semplice, immediato ed efficiente. Per non parlare poi degli scenari che si stanno aprendo sul fronte della telemedicina”.

Jessica Bianchi

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