Non chiamatele baby gang

“Qui c’è dell’altro. Siamo di fronte a gruppi non omogenei per provenienza geografica o origine etnica, composti da minorenni che fanno del bullismo di gruppo attraverso la prevaricazione e l’aggressività, danneggiando persone e cose al solo scopo di mettersi in evidenza” spiega Dino Giovannini, psicologo e professore emerito dell’Università di Modena e Reggio.

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Foto di repertorio

L’escalation di risse ed episodi di cronaca con protagonisti sempre giovanissimi non è un fenomeno che riguarda la sola città di Carpi. A Reggio Emilia il questore Antonio Sbordone ha voluto al suo fianco lo psicologo e professore emerito dell’Università di Modena e Reggio Dino Giovannini in occasione dell’ultima conferenza sui nove giovani denunciati per la rissa all’isolato San Rocco affinché potesse fornire elementi conoscitivi delle dinamiche in atto.

Professore che idea s’è fatto?

“Non sono baby gang perché non ne hanno la struttura o le finalità e perché le bande hanno un’organizzazione per commettere reati. Qui c’è dell’altro. Siamo di fronte a gruppi non omogenei per provenienza geografica o origine etnica, composti da minorenni che fanno del bullismo di gruppo attraverso la prevaricazione e l’aggressività, danneggiando persone e cose al solo scopo di mettersi in evidenza.

Il bullismo di gruppo è un fenomeno che ha contorni ben definiti: c’è un’intenzionalità, non c’è un’organizzazione calcolata e le azioni vengono messe in atto improvvisando. La cosa interessante è che in questi gruppi c’è quasi sempre un maggiorenne, un soggetto che funge da capo, da leader capace di mettere in atto azioni aggressive, di prendere iniziative e viene imitato da soggetti che hanno un’identità poco strutturata, insicuri e che, in qualche modo, hanno bisogno di imitarlo per mettersi in evidenza e affermarsi”.

Provano piacere nel commettere questo tipo di azioni?

“Bisognerebbe conoscere questi ragazzi, intercettarli, parlare con loro e capire le struttura di personalità, individuare le caratteristiche personali di ognuno. Questo tipo di fenomeno è il sintomo di un disagio sociale e di una frustrazione che genera aggressività. Il disagio nasce dal fatto di sentirsi deprivati: esiste un modello teorico, quello della deprivazione relativa, per cui ci sono soggetti che si sentono non soddisfatti quanto ad aspettative che ritengono sarebbero loro dovute. In qualche modo il ragionamento è: io che cosa ho fatto per non avere quello che hanno i miei compagni di scuola, di classe, altri miei coetanei? Si sentono di non avere ciò che gli spetterebbe e questo provoca disagio e frustrazione e cercano una rivalsa in comportamenti che possano garantire loro di mettersi in evidenza”.

C’è chi punta il dito contro le famiglie…

“Tante famiglie di classe medio-bassa vivono una condizione di disagio sociale per problemi economici o per difficoltà di vario genere e sono provate dalla povertà. Proviamo a pensare al caso del figlio di una donna che, facendo la badante, parte la mattina per tornare la sera tardi e rimane da solo perché vivono in due: qual è lo stimolo che porta il ragazzo ad andare a scuola? Per quanto una madre e un padre possano dare il meglio di sé, non può essere risolto il problema. In questi casi occorre mettere in rete tutti gli attori che hanno competenze per prevenire fenomeni di questo tipo e quando dico fare rete o usare il lavoro di rete, mi riferisco agli attori istituzionali: dalle circoscrizioni ai servizi sociali, dai gruppi di volontariato alla scuola, perché le Forze dell’Ordine garantiscono la sicurezza ma da sole non ce la possono fare.

Le reti esistono ma bisogna implementarle ancora meglio e riuscire a tener conto del fatto che, se uno di questi attori lavora ma un altro perde qualche colpo, se non tutti vanno dello stesso passo, poi i risultati non sono come potrebbero essere”.

Sara Gelli