26 aprile 1986. Una data che resta come congelata nel tempo. Sospesa. Di quell’Apocalisse, consumatasi all’1:23:40 si è sempre parlato poco, ma le cicatrici causate dallo scoppio del reattore n.4 della centrale nucleare di Chernobyl, quella storia, maledetta, la gridano ancora oggi. A camminare tra le strade di Pripyat, la città fantasma in cui tutto è rimasto cristallizzato, anche Alex Emiliani, marito della carpigiana Giuliana Ferrari, con cui da quasi dieci anni vive ad Antigua & Barbuda, nei Caraibi.
Chernobyl ti arriva dritta alla pancia, impossibile non restare ammutoliti di fronte a quello che vedi laggiù. “Da un anno preparavo questo viaggio”, racconta Alex, ma come si può essere pronti di fronte a tanta devastazione? “E’ stata un’esperienza fortissima a cui mi sono avvicinato con rispetto: dopo aver letto libri ed essermi documentato, volevo sentirmi dentro alla storia. Guardarci dentro. Quella terra è un museo a cielo aperto dove ogni cosa è pressoché rimasta inalterata dopo l’incidente e a ogni passo che ho mosso ho tentato immaginare come vi scorresse la vita prima che tutto finisse”. Alex è rimasto dentro la Zona di esclusione per tre giorni: ho assorbito circa 30 microSievert, le radiazioni a cui sarei stato esposto sottoponendomi a una radiografia al torace o poco più. Ciascuno di noi era provvisto di un contatore Geiger e un geolocalizzatore ma pur muovendoci piuttosto liberamente al nostro seguito c’era sempre una guida. La zona di esclusione, infatti, è contaminata a macchia di leopardo e quindi, quando se ne varca la soglia, vi sono dei punti in cui ci si può muovere in sicurezza ma bisogna conoscerli e avere con sé qualcuno del luogo è di fondamentale importanza”. L’atmosfera di Pripyat è spettrale, vige il coprifuoco dalle 22 alle 7 del mattino, solo qualche cane scorrazza libero per le strade: “guai a toccarli però perché sono ricoperti di polvere radioattiva e per questo hanno un’aspettativa di vita che non supera i due anni”, continua Alex. Entrare nelle case è proibito ma le guide chiudono un occhio, perché è lì, tra quelle mura che si misura davvero la drammaticità della tragedia: “tutto è come allora. I vestiti riposti negli armadi, i giochi dei bambini… pensare che oltre 50mila persone vennero caricate sugli autobus senza poter fare più ritorno alle proprie case è sconvolgente. Anche i negozi sono praticamente intatti, da alcune vetrine spuntano ancora pianoforti, televisioni… mentre su ogni cosa si allunga l’ombra di una ruota panoramica ferma ormai da trentaquattro anni: sembra di essere dentro a una bolla in cui il tempo si è arrestato”.
Malgrado la dissoluzione dell’ex Unione Sovietica, in Ucraina sopravvive una vera e propria icona della Guerra Fredda: “il sistema Duga (arco in russo) era un complesso di enormi antenne in grado di rilevare il lancio di missili a grande distanza dislocato sul territorio sovietico. Una di queste antenne è posizionata nei pressi di Chernobyl e, contrariamente ad altre basi dell’ex URSS dismesse o abbandonate e quindi saccheggiate negli anni, quella che custodiva Duga-3 trovandosi a pochi chilometri dalla centrale nucleare esplosa, essendo finita nella zona di esclusione, è rimasta praticamente intatta. Sono ancora visibili i murales con i disegni del realismo socialista, poster con falce e martello, apparecchi radio dell’epoca, mentre sull’antenna, praticamente integra, mi sono arrampicato ma non fino in cima. Lo farò la prossima volta perché di una cosa son certo – sottolinea Alex Emiliani – questo è un viaggio da rifare per condividere la potenza di queste emozioni con chi ami”.
Mentre la natura sta riprendendo possesso della zona di esclusione, e la foresta rossa si allarga, la centrale nucleare è ancora operativa e vi lavorano circa mille persone: “abbiamo visitato il reattore 3 e la sua sala comandi, del tutto simile a quella del numero quattro. Le parole non rendono la forza di un’esperienza simile”.
Oggi un gigantesco arco di acciaio avvolge il sarcofago che a sua volta racchiude il reattore n.4 della centrale nucleare di Chernobyl, distrutto nella fusione seguita a due scoppi nella notte del 26 aprile 1986. Di lui restano 13mila tonnellate di “lava” radioattiva, il combustibile nucleare – 192 tonnellate di uranio – mescolato alle componenti del reattore fuso, al piombo, alla sabbia e all’acido borico gettati dagli elicotteri per bloccare l’incendio e il rilascio di polvere radioattiva.
Tanti gli interrogativi, poche le risposte. Perché quella è una storia fatta di errori, orrori, silenzi e omissioni. Qualcuno però ha deciso di fare ritorno nella zona morta, ha accettato di essere rinnegato dal proprio Governo in cambio di 50 euro al mese di pensione: “le due babooshka che abbiamo incontrato ci hanno accolto con una rara ospitalità – sorride Alex – vivono con poco più di niente eppure condividono tutto ciò che possiedono. Queste persone hanno perso tutto ma non la propria dignità né, tantomeno, il coraggio di andare avanti. Nonostante tutto”.
Chi volesse vedere tutte le immagini scattate da Alex, può consultare la pagina Instagram “viaggia_scopri_ama”.
Jessica Bianchi