L’impegno di Africa Libera in Costa d’Avorio

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La guerra civile, iniziata nel 2002, l’ha dilaniata per oltre dieci anni, e nonostante ora sia ufficialmente terminata, la Costa d’Avorio resta un paese pieno di fratture e divisioni, con le ferite causate dal conflitto ancora ben visibili. Sebbene disponga di una delle economie più prospere del continente africano, essa è tuttavia fragile, perché basata principalmente sull’esportazione di materie prime, legata dunque alle fluttuazioni dei prezzi internazionali. Basti considerare che l’aspettativa di vita alla nascita è di poco più di 51 anni e gli anziani ultra 60enni rappresentano soltanto il 3% della popolazione. L’associazione carpigiana Africa Libera è arrivata sul territorio, dal confinante Ghana dove già operava, un anno dopo il termine delle ostilità: “sebbene i nostri progetti siano iniziati il 1° luglio 2018 – spiega il presidente Marino Malaguti – siamo arrivati nel paese quando ancora c’erano alcune strade bloccate dall’esercito. Il problema immediato era rappresentato dalla fame, per cui abbiamo iniziato a seminare sette ettari di terreno, da cui sono state raccolte quattro tonnellate di riso, consegnate soprattutto a bambini e donne”. Due categorie, queste, colpite in modo particolare dai combattimenti tra esercito governativo e ribelli: “i mariti se ne sono andati al fronte, lasciandole sole, senza contare che alcuni non sono mai più tornati. Molte donne sono state violentate e hanno avuto figli che non volevano e che ora hanno già 10 anni. In quanto ai bambini, non hanno potuto compiere un percorso di istruzione, perché le scuole sono state chiuse per anni. Se a tutto questo si aggiungono i campi lasciati incolti a causa dei combattimenti, si può intuire la gravità della situazione. Se a Carpi stiamo discutendo di un nuovo ospedale, in questi paesi spesso anche soltanto l’accesso alle cure e all’istruzione primaria restano un miraggio per una larghissima fetta della popolazione”. Fase successiva, quella che ha visto la nascita del progetto S.M.A.R.T., con lo scopo di avviare produzioni biologiche locali, con colture di riso, manioca, frutta e ortaggi. Iniziato con quattro cooperative, composte da donne capi-famiglia e vittime di violenze durante la guerra, che ora sono diventate 17, un numero in continuo aumento: “abbiamo formato i formatori che, a loro volta, stanno girando i luoghi per verificare che tutti i processi siano svolti in maniera corretta. Sono impegnate circa 25 donne per cooperativa, e questo significa 25 famiglie, che in quei luoghi sono allargate, composte cioè anche da fratelli, sorelle, zii. Almeno 400 persone sono coinvolte direttamente, senza contare tutto l’indotto”. Sebbene i problemi siano ancora enormi e la strada da fare lunga e complessa, non sono mancate anche le soddisfazioni: “non dimenticherò mai l’entusiasmo con cui la popolazione ci ha accolto. Abbiamo goduto di un’ospitalità fuori dal comune – conclude Marino Malaguti – respirando ogni giorno l’entusiasmo delle persone coinvolte nei progetti di sviluppo, parlando davanti a platee di migliaia di persone. Cose che ti restano dentro per sempre”.

Marcello Marchesini

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