Il Mediterraneo deve tornare a essere un ponte, non un muro

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Ritornano spesso a visitarlo, quasi tutte le notti: il bambino con i pantaloncini rossi, insieme a tanti altri. Fanno parte della schiera di coloro che non è riuscito a salvare e per i quali, sebbene non ne abbia colpa, la coscienza reclama il proprio tributo. A lui, che da 28 anni si spende senza risparmio per tentare di porre un argine all’orrore, prima vedetta della porta d’Europa, dritto in quel molo Favarolo di Lampedusa sul quale ha trascorso più nottate che a casa propria, in attesa dell’ennesima nave, degli ennesimi corpi stremati, così come di quelli ormai senza vita. Al punto che pare dover affrontare la sorte del vecchio marinaio, protagonista del celebre poema di Coleridge, condannato per sempre a narrare terribili eventi a causa della brutalità degli uomini. Si tratta di Pietro Bartolo, medico a Lampedusa, reso involontariamente celebre da Fuocoammare, il documentario di Francesco Rosi aggiudicatosi l’Orso d’Oro a Berlino, invitato a raccontare la propria esperienza a Carpi, in un Auditorium San Rocco gremito, in occasione del Giorno della Memoria, per proporre alla cittadinanza “una sessione di umanità aumentata”, come l’ha definita il presidente della Fondazione ex-Campo Fossoli, Pierluigi Castagnetti. Quello di Bartolo è stato il racconto di un’esperienza che più diretta non si potrebbe, il racconto di chi, quegli uomini, quelle donne, quei bambini li accoglie per primo, salendo sulle navi per constatare l’assenza di malattie gravi a bordo, e fornire quindi l’autorizzazione allo sbarco. Una vicinanza alla tragedia dell’immigrazione che si concretizza in 350mila persone visitate, centinaia di storie caricate nel bagaglio della memoria, così come in troppe ispezioni cadaveriche per poterle, e volerle, contare. “Appena sbarcano – ha raccontato, senza preoccuparsi di tradire l’emozione – li accolgo, li curo, li ascolto. Non è molto, vi assicuro, ma per loro è importantissimo, perché per la prima volta dopo tanto tempo vengono trattati di nuovo come esseri umani, e per questo mi guardano stupefatti, mi ringraziano, qualcuno addirittura si inginocchia”. Non è certo con umanità, infatti, che si trovano a venire rinchiusi nei campi in Libia, che Bartolo non esita a definire veri e propri lagher, tanto che “come europei dovremmo profondamente vergognarci di stipulare accordi con un Paese che viola in modo così palese i diritti umani fondamentali”; non certo di un viaggio in condizioni umane si tratta, poi, per quelli che riescono a salire sui barconi, gommoni di infima qualità che costano ai trafficanti poche decine di euro, e che spesso vengono abbandonati alla deriva, quando non affondano. “Prima di diventare medico sono stato marinaio e anche naufrago, dunque so cosa significa stare in mezzo al mare, di notte, sapendo che la morte può essere un destino molto probabile”. Sono tante le storie che Bartolo racconta, impastate di orrore e umanità insieme: come quella di Amira, partita sola, a 8 anni, in cerca della madre, e arrivata fino a Lampedusa, dopo essersi nutrita anche di cadaveri per sopravvivere; o come quella della bambina che ha vegliato e nutrito la madre, impossibilitata a muovere le gambe per una paresi dovuta alla quantità di stupri subiti in Libia, tanto che, ogni volta che il medico tentava di avvicinarsi alla donna, la bambina cercava, per proteggerla, di assalirlo; o ancora la vicenda di Kebrat, fuggita dall’Eritrea e creduta morta, avvolta in un sacco ma poi salvata, e ora in Svezia, dove si è sposata e aspetta un bambino. I fatti narrati da quest’uomo che, da medico su un’isoletta sperduta a metà tra Africa ed Europa, si è trovato quasi per caso a essere testimone della Storia attraverso le storie, lasciano senza fiato, impongono di sospendere qualsiasi giudizio, come sempre avviene quando ci si trova di fronte alla nuda umanità, al dolore per chi ha trovato la morte, alla gioia di chi, alla fine, si è salvato. “Alcuni mi chiamano eroe, ma è un termine che mi dà fastidio, perché una società che considera un atto eroico aiutare le persone che stanno male è veramente alla frutta”. Eroe no, ma Giusto, sì, definire Bartolo in questo modo pare il minimo. Un uomo che cerca di aiutare i sofferenti, come sa, come può. A volte con mezzi di fortuna, come quando, mentre in mare aperto assisteva al parto di una naufraga, si è visto costretto, per chiudere il cordone ombelicale, a utilizzare un laccio delle scarpe. “Sono decenni che arrivano su ogni tipo di imbarcazione e ancora si parla di emergenza. Dobbiamo invece farcene una ragione, comprendere che si tratta di un fenomeno strutturale, e utilizzare, per gestirlo, tutta l’intelligenza, la razionalità, l’umanità e la lungimiranza di cui siamo capaci. L’Africa è il continente più ricco di risorse del pianeta, e siamo noi, depredandola, ad averla fatta diventare il posto sbagliato del mondo in cui nascere. Il nostro motto sul molo Favarolo è ‘proteggere le persone, non i confini’, ed è in base a questo tentiamo di agire ogni giorno. Il Mediterraneo, da mare di vita, si è fatto un cimitero, ma deve tornare a essere un ponte, non un muro. Ogni fine settimana, da tre anni, giro l’Europa per raccontare a tutti le storie dell’umanità che incontro a Lampedusa, perché le persone possano conoscere realmente cosa accade, le sofferenze e le cose belle che chi arriva dal mare porta con sé. Persone, è questa la parola chiave: esseri umani come noi”.

Marcello Marchesini

 

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