Si narra abbia sbaragliato la concorrenza con una lezione magistrale sulla statura di Cristo, conquistando così, definitivamente, il cuore degli americani. Leggenda metropolitana o no, il risultato non cambia, il 38enne carpigiano Emanuele Lugli ha fatto centro. Nominato docente presso l’Università di Stanford, per Emanuele (laureato in Lettere moderne a Bologna, con un master conseguito a Londra in Storia della cultura del rinascimento, un dottorato all’Institute of Fine Arts di New York e un post dottorato al Kunsthistorisches Institut di Firenze), da settembre, inizierà una nuova e straordinaria avventura accademica. Dopo la cattedra di Storia dell’arte medievale all’Università di York, nel Regno Unito, per Emanuele Lugli è tempo di volare Oltreoceano, verso una nuova vita e ancor più ambiziosi traguardi da raggiungere.
Da quanto tempo hai lasciato Carpi e cosa ha dettato questa decisione?
“Carpi l’ho lasciata come tanti ai tempi dell’università. L’Italia invece l’ho salutata alla fine della laurea dal momento che mi era stato detto chiaro e tondo che non c’erano molti sbocchi accademici in Italia. Ma non c’è stato un piano vero e proprio. Io ero partito solo per fare un master. Poi, pur tornando regolarmente, sono rimasto all’estero”.
Perché la scelta è ricaduta sugli States?
“Mi sono perfezionato negli Stati Uniti e so che hanno fondi e una versatilità difficilmente rintracciabili nelle università europee. Però non miravo solo agli States. Ho fatto domanda anche in Canada e guardavo a Hong Kong e all’Australia. Ogni anno escono poche cattedre per cui posso candidarmi: nel 2018 ce ne saranno state cinque in tutto il mondo, quindi non è che abbia avuto una gran scelta…”.
Com’è ricominciare una vita all’estero?
“Io non noto molto la differenza. Londra e Parigi non sono così lontane. Ho avuto più problemi a trovare casa a Firenze che in Inghilterra”.
Di cosa ti sei occupato sinora?
“Ho scritto due libri sulla storia delle misure. E diversi articoli e saggi: dalle miniature medievali ai disegni di Leonardo Da Vinci, da Cesare Beccaria a Christian Dior. In particolare però mi occupo della storia dell’arte da Giotto al primo Cinquecento e del modo in cui comuni e signorie italiani hanno utilizzato edifici e oggetti per farsi una reputazione e condizionare comportamenti e idee. Gran parte dei miei studi è dedicata allo sviluppo di quelle che chiamiamo scienze: erbari, diagrammi astronomici, illustrazioni anatomiche e, appunto, misurazioni”.
Sei appena stato nominato docente dell’Università di Stanford: qual è stata la prima cosa che hai fatto quando lo hai saputo? Come hai festeggiato?
“In realtà devo ancora festeggiare perché non ci credo ancora e perché la notizia è arrivata nel bel mezzo di un trasloco da York a Londra e all’inizio del semestre a York, l’ultimo per me. Quando finisco di spacchettare, però, festeggio”.
In cosa consisterà questa nuova avventura? Cosa ti emoziona e cosa ti spaventa di più?
“La qualità degli studenti di Stanford è altissima. Viene accettato meno del 5% di chi fa domanda: è l’università più selettiva degli Stati Uniti. Praticamente vado a insegnare a dei geni, quindi dovrò preparare lezioni di un certo livello. Stanford vanta la presenza di vari premi Nobel che insegnano economia e matematica, quindi immagina le aspettative che hanno nei miei confronti… Inoltre sento una certa responsabilità dal momento che sarò l’unico a insegnare Giotto e Raffaello. Se gli studenti non si entusiasmeranno, sarà solo colpa mia”.
Cosa ami maggiormente del modello sociale ed economico americano?
“Gli Stati Uniti, come l’Italia, sono un paese vasto e complesso, difficile da riassumere in poche parole. Io andrò in California e, in particolare, nella Silicon Valley, che sembra avere notevoli problemi legati agli alloggi e ai rapporti fra amministrazione e aziende. Sinora ho vissuto solo a New York, tra l’altro da studente immigrato e, quindi, con molte limitazioni e le esperienze sociali ed economiche che ho avuto sono state ridotte. Immagino che anche Stanford rappresenterà un mondo a parte dal momento che la facoltà e gli studenti saranno persone poliglotte, con innumerevoli esperienze internazionali alle spalle. Ma ho intenzione di avventurarmi oltre la bolla accademica. Vedremo”.
La cosa più pazza che sei riuscito a fare all’estero e non avresti mai potuto fare in una città di provincia come Carpi.
“Io non considero Carpi un posto così provinciale. I carpigiani che conosco viaggiano un sacco e fanno tante cose eccitanti. Alcune delle cose più pazze le ho fatte con mio fratello, i miei cugini e amici a Carpi o al mare. Poi vabbè, le grandi città hanno dinamiche diverse. Per esempio mi sono sposato a New York e abbiamo organizzato il matrimonio in due giorni, prima dell’arrivo degli ospiti, affittando uno spazio su Airbnb, andando da un messicano per cena con un water taxi e facendo la spesa (e ordinare la torta!) alle tre del mattino. Quello è stato un gran party”.
La tua casa è lì o pensi ancora con nostalgia a Carpi?
“Io torno spesso. Anche se non vivo la quotidianità carpigiana, non è che mi sia dimenticato i nomi delle strade o non riconosca più i negozi”.
Qualche rimpianto legato alla tua città d’origine?
“L’unica cosa è che non vedo la famiglia e gli amici quanti vorrei. Ma magari ora li convinco tutti a trasferirsi in California”.
Jessica Bianchi