L’alluvione del 2014 ha riacceso le annose polemiche relative alla trascuratezza e alla manutenzione degli argini. Terra di fiumi e corsi d’acqua, la provincia di Modena ha una grande sfida dinnanzi, quella di mettere definitivamente in sicurezza il suo complesso nodo idraulico. Ma è possibile rendere i nostri argini più sicuri dando vita al contempo a un processo virtuoso, sostenibile e dal ritorno economico interessante? La risposta potrebbe essere positiva grazie all’idea dei due ingegneri meccanici Giulio Allesina, carpigiano, e Simone Pedrazzi del Centro Interdipartimentale per la Ricerca Applicata e i Servizi nel settore della Meccanica Avanzata e della Motoristica Intermech More dell’Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia. Il progetto – che ha come capofila l’ateneo e vede l’Unione delle Terre d’Argine partner di un programma regionale finanziato dalla Regione Emilia Romagna per sostenere la ricerca industriale strategica rivolta all’innovazione in ambito energetico, coinvolge anche centri di ricerca specializzati in energia e agricoltura, legati alle Università di Parma e Bologna, oltre al Consiglio per la ricerca in agricoltura e l’analisi dell’economia agraria – si chiama REBAF – Recupero Energetico Biomasse Alvei Fluviali. “Dopo l’alluvione, camminando sugli argini di Secchia, Tiepido e Panaro – spiegano i due ingegneri – ci siamo resi conto che nonostante tali corsi d’acqua abbiano morfologie diverse tra loro sono tutti uniti da un comune denominatore: la presenza di una consistente quota di biomassa. Alberi, erba, cespugli e cannicci crescono non solo sugli argini ma, spesso, ingombrano anche gli alvei: questo rende il passaggio dell’acqua, in caso di piena, molto difficoltoso e fa sì che l’onda eserciti una maggiore – e potenzialmente pericolosa – pressione sull’argine”. L’idea di base di REBAF – Recupero Energetico Biomasse Alvei Fluviali è quindi quella di sfruttare la grande quantità di questa biomassa, disponibile a costo zero, per produrre energia, garantendo allo stesso tempo argini sgombri e sicuri. “L’obiettivo – spiega Allesina – è la modellazione, costruzione e validazione sperimentale di sistemi e impianti innovativi per lo sfruttamento energetico della biomassa legnosa ed erbacea (gassificazione e pirolisi), proveniente dalla manutenzione dell’alveo fluviale del fiume Secchia che lambisce i quattro Comuni dell’Unione Terre d’Argine (Carpi, Soliera, Novi e Campogalliano), nel tentativo di individuare soluzioni innovative ed efficienti per la gestione degli sfalci e del materiale di scarto e per ridurre il rischio di piene”. Il team di ricerca a cui appartengono Allesina e Pedrazzi, capitanato dal professor Paolo Tartarini, si occupa della conversione energetica: “naturalmente le biomasse presenti in aree fluviali sono di diverso tipo. Pioppi e salici, ad esempio, rappresentano materie prime di ottima qualità e, di conseguenza, hanno una buona resa energetica; al contrario, potature, cespugli e rami, magari rimasti in acqua per lungo tempo, sono molto meno efficienti. Abbiamo quindi pensato di costruire un prototipo in grado di trasformare questi materiali in biochar: carbone vegetale che si ottiene dalla pirolisi di diversi tipi di biomassa vegetale”. La pirolisi permette di ottenere un gas con un potere calorifico pari al Gpl che può essere utilizzato sia per sostenere il processo di produzione del biochar sia per produrre energia e calore extra. Tale sottoprodotto, se applicato ai suoli, è un potente ammendante. “La sua alta porosità – proseguono gli ingegneri – aumenta la ritenzione idrica e quella degli elementi nutritivi che rimangono più a lungo disponibili per le piante; migliora inoltre la struttura del terreno e le sue proprietà meccaniche. Molti studi hanno già dimostrato l’impatto positivo dell’applicazione del biochar sulle rese agricole diminuendo il fabbisogno di acqua e fertilizzanti. La struttura compatta del biochar permette poi a questo prodotto di non essere degradato dai microrganismi del suolo e quindi di stoccare carbonio invece che farlo tornare all’atmosfera sotto forma di CO2 come nel caso del compost o dell’abbruciamento dei residui di potatura”. Il biochar potrà essere “restituito” all’argine per renderlo più fertile, vivo e rigoglioso, “sequestrando allo stesso tempo anidride dall’atmosfera e combattendo così l’effetto serra”, sorride Allesina. L’ultima fase del processo prevede invece la conversione degli sfalci di minor qualità (quelli intrisi di fango): “un team di ricerca, guidato da Luisa Barbieri, sta lavorando per carbonizzare tale tipologia, trasformandola in argilla nera con cui realizzare una sorta di laterizi a impatto ambientale zero, per camminamenti e spianate, e rendere così l’ambiente fluviale più fruibile dalla cittadinanza”, prosegue Pedrazzi. “Siamo davanti a un tipico esempio di economia circolare: il beneficio è sempre a vantaggio della popolazione. Gli argini sono più fruibili e sicuri. Vi è poi un chiaro beneficio di carattere ambientale, poiché grazie al sequestro di CO2 contrastiamo l’effetto serra generato dall’abuso di fonti fossili”, conclude Giulio Allesina. I team di ricerca hanno due anni di lavoro davanti a sé per realizzare i necessari studi di fattibilità e creare best practice, starà poi ai quattro comuni dell’Unione scegliere se intraprendere – o meno – tali virtuosi percorsi.
Jessica Bianchi