Mangiare non è solo il mero soddisfacimento di un bisogno primario, rappresenta piuttosto un atto di consapevolezza. Ciò che decidiamo di porre nel nostro piatto è prima di tutto una scelta etica. Che faccia ha il nostro cibo? Ciò che mettiamo nel carrello della spesa può essere sostenibile per l’ambiente e salutare per il nostro organismo? Mangiare carne, croce e delizia di tanti e nemico numero uno per vegeteriani e vegani, può essere una scelta perseguibile dal punto di vista dell’impatto ambientale? Sono gli allevamenti il problema o, al contrario, è la modalità con cui nutriamo e cresciamo gli animali? Cibo, giustizia e sostenibilità possono andare a braccetto? Secondo il grass farmer americano, come lui stesso ama definirsi, Joel Salatin sì. Per lui, come per molti altri allevatori consapevoli nel mondo, il segreto è l’erba: elemento chiave grazie al quale gli animali si nutrono. Questi allevatori/agricoltori d'erba, che hanno a che fare con la produzione di uova, carne, latte e lana, vedono gli animali come parte di una catena alimentare nella quale l'erba è la chiave di volta, l'intermediario tra l'energia solare e gli animali che mangiamo. Negli allevamenti intensivi, al contrario, i bovini – e non solo – vengono ingrassati a cereali: da impianti di trasformazione a energia solare (in quanto consumatori di erba) si trasformano in consumatori di energia fossile (per l’aratura, la semina e la raccolta del mais – e non solo – si usano macchinari che bruciano combustibili fossili). Ma una dieta a base di cereali è sana per i ruminanti? E per coloro che se ne nutrono? Al dottor Giorgio Micagni, presidente dell’ordine dei veterinari di Reggio Emilia chiediamo:
I bovini sono ruminanti con un apparato digerente in grado di trarre nutrimento da un cibo poverissimo, l’erba. Quanto tempo impiega un manzo allevato a pascolo per ingrassare al punto da poter essere macellato?
“L’apparato digerente dei ruminanti o poligastrici, come i bovini, si distingue da quello dei monogastrici come l'uomo per la presenza di vari organi di grandi dimensioni composti da quattro parti comunicanti (reticolo, rumine, omaso e abomaso). Questi così detti prestomaci sono colonizzati da un insieme assai composito di microrganismi (batteri, protozoi, funghi, lieviti) che, attraverso lo sviluppo di processi fermentativi anaerobici, consente all'animale di avvalersi di alimenti non utilizzabili dagli animali monogastrici. In particolare i ruminanti sono in grado, attraverso la mediazione della microflora ruminale, di utilizzare la cellulosa e le emicellulose, quelle che noi chiamiamo fibre, di cui sono ricchi gli alimenti di origine vegetale e che risultano indigeribili in parte o in toto per gli altri mammiferi. Le tecniche di allevamento hanno da tempo spinto dapprima verso un’ottimizzazione poi a un sempre maggior sfruttamento delle capacità digestive dei ruminanti al fine di accelerare i tempi di accrescimento degli animali e quindi produrre carne in tempi rapidi o aumentare i quantitativi di produzione di latte. Questo è stato ottenuto prevalentemente utilizzando mangimi concentrati con forte utilizzo di cereali mettendo in parte in competizione l'alimentazione animale e quella umana. Il risultato è stato un aumento delle produzioni di latte e carne imponente per singolo soggetto e una riduzione dei tempi necessari a portare i soggetti in produzione. Infatti i tempi per portare un soggetto al pascolo alla macellazione è notevolmente maggiore e meno redditizio rispetto all'allevamento intensivo soprattutto se si vogliono rispettare i tempi fisiologici di svezzamento dei vitelli che in un sistema “naturale “ rimangono all'allattamento fino a sei mesi di età. Tenendo conto della variabilità e della specializzazione delle varie razze bovine e dei loro incroci e della variabilità e del potenziale nutritivo dei terreni per ottenere un bovino da macello ci vogliono, senza integrazioni alimentari spinte o particolari, tempi intorno ad almeno 24 mesi”.
Quando la richiesta di carne è aumentata, è cambiato anche il tipo di allevamento. Per ottenere rapidamente bovini da macello si è passati a un allevamento intensivo industriale. In cosa consiste?
“Con allevamento intensivo o allevamento industriale (factory farming) si intende una forma di allevamento che utilizza tecniche industriali e scientifiche per ottenere la massima quantità di prodotto al minimo costo e utilizzando il minimo spazio. L'allevamento intensivo è una pratica che si è diffusa nel XX° secolo (in Italia soprattutto a partire dal secondo dopoguerra) con lo scopo di soddisfare la crescente richiesta di prodotti di origine animale (in particolare carne, uova e latticini) abbattendone al contempo i costi, in modo da rendere questa categoria di prodotti adatta al consumo di massa. Se la riduzione dei costi e la possibilità di produrre su scala industriale erano inizialmente gli unici fattori a influire sulle modalità e le tecniche impiegate nell'allevamento intensivo, in seguito queste sono state sottoposte a un continuo processo di revisione in funzione di considerazioni come la tutela degli animali, l’igiene e la qualità dei prodotti, l'impatto ambientale e la sicurezza alimentare. Nella maggior parte degli allevamenti intensivi gli animali sono trattenuti in spazi più o meno ristretti, allo scopo di massimizzare l'uso dello spazio disponibile e semplificare le operazioni di nutrimento e cura; sono allevati in aziende di grandi dimensioni e in gran numero. Le condizioni fisiche e fisiologiche degli animali, incluso il loro stato di salute, essendo sottoposte a maggior sfruttamento produttivo, debbono essere tenute sotto controllo sia attraverso misure igieniche che, eventualmente, per mezzo di controllo farmacologico. L'alimentazione degli animali viene ugualmente controllata in funzione delle caratteristiche (costo, qualità) del prodotto finale da ricavare”.
Perché nella dieta dei vitelli sono stati inseriti cereali ad alto tenore di carboidrati?
“Nella dieta dei bovini è stato introdotto l'uso dei cereali per sfruttarne l'alto potenziale nutritivo energetico dovuto alla elevata composizione in amidi digeribili. In particolare nella dieta dei bovini da latte e da carne è stata introdotta una elevata quantità di mais come componente della razione alimentare. Questo elevato apporto energetico, se gestito correttamente e nel rispetto della fisiologia complessa dei ruminanti, può permettere aumenti delle produzioni unitarie e aziendali impensabili rispetto a soggetti alimentati solamente con foraggi. In tal senso la selezione genetica ha spinto sempre più verso soggetti con elevate performance produttive non sempre sostenibili senza integrazioni alimentari sempre più complesse”.
Quanto tempo occorre per raggiungere il giusto grado di accrescimento con un’alimentazione a base di cereali?
“L'introduzione dell'utilizzo massiccio di cereali nella alimentazione dei bovini ha permesso di abbreviare notevolmente i tempi necessari per portare alla macellazione soggetti delle varie tipologie. Anche la Legislazione Comunitaria e Nazionale sono intervenute per difendere il consumatore e per definire tempi minimi per classificare le varie tipologie di soggetti macellabili per cui si può già definire vitello macellato un soggetto fino a 8 mesi di età e vitellone un soggetto tra 8 e 12 mesi di età. L’introduzione massiccia dei cereali nell’alimentazione dei bovini ha accelerato fortemente, i tempi di accrescimento e macellazione di tali animali”.
Esistono controindicazioni per i bovini che seguono una dieta che potremmo definire “innaturale”?
“L'utilizzo dei cereali non è di per sé innaturale ma richiede attenzione per il rispetto della fisiologia digestiva dei ruminanti. La ruminazione e quindi la capacità di digerire gli alimenti vegetali da parte dei bovini è un meccanismo fisiologico specializzato molto delicato. Il complesso degli stomaci del bovino è specializzato sostanzialmente per lo sfruttamento di alimenti ricchi di fibra che vengono elaborati per estrarne i nutrienti nobili necessari al sostentamento dell'animale. Con i cereali ricchi di amidi e poveri di fibra questo meccanismo viene forzato per aumentare l'apporto energetico derivante dalla digestione. Eccessi in tal senso possono determinare scompensi ben conosciuti a livello veterinario e che sono al centro della complessa gestione della nutrizione dei bovini come fattore essenziale per la produttività e la redditività della attività negli allevamenti moderni intensivi.”.
Come l’aumento di farmaci con cui vengono curati gli animali incide sulla salute umana?
“L'utilizzo del farmaco non è di per sé un pericolo per la salute animale, anzi, con il progressivo miglioramento della ricerca in tale settore oggi abbiamo a disposizione dei presidi molto più efficaci e sicuri per la cura animale. Va da sé che se il farmaco viene usato nelle aziende non per curare ma per tamponare o correggere e contenere stati fisiologici alterati da errate condizioni gestionali, si pone un dubbio etico e di sicurezza sulla gestione di talune attività di allevamento. Non è quindi il farmaco in sé il problema ma un suo uso improprio non curativo ma preventivo o profilattico che può portare elementi di rischio per le catene alimentari poiché con l'aumento dei quantitativi di farmaco utilizzato aumentano le probabilità di residui nei prodotti di origine animale. In tal senso la normativa è divenuta sempre più restrittiva individuando non solo tempi di sospensione, modalità di registrazione dell'utilizzo dei farmaci, autorizzazioni per eventuali scorte ma anche piani di campionamento sugli alimenti destinati agli animali che sui prodotti di origine animale destinati all' uomo che fanno parte dei Piani Nazionali Residui imposti dalla Normativa Comunitaria e che sono eseguiti dai Servizi di Sanità Pubblica Veterinaria che in Italia, a differenza di altri Paesi dipendono in piena autonomia operativa e intellettuale dal Ministero della Salute e non da altri Ministeri, come in molti Paesi Europei, al servizio del mondo produttivo. Questa differenza è essenziale e peculiare del nostro sistema sanitario che è a tutela del consumatore e della salute pubblica e non al servizio delle esigenze dei produttori. Un uso non moderato del farmaco negli allevamenti intensivi può poi contribuire a determinare fenomeni di antibiotico resistenza che è una tematica di particolare attualità nel campo della medicina umana”.
Le micotossine presenti nei mangimi e, di conseguenza, nella filiera agro-alimentare, costituiscono un pericolo per la salute umana?
“Le micotossine sono composti tossici prodotti da diversi tipi di funghi, appartenenti principalmente ai generi Aspergillus, Penicillium e Fusarium. In particolari condizioni ambientali, quando la temperatura e l’umidità sono favorevoli, questi funghi proliferano e possono produrre micotossine. Generalmente entrano nella filiera alimentare attraverso colture contaminate destinate alla produzione di alimenti e mangimi, principalmente di cereali. La presenza di micotossine negli alimenti e nei mangimi può essere nociva per la salute umana e degli animali poiché può causare effetti avversi di vario tipo, come il cancro e la mutagenicità, nonché portare disturbi a livello estrogenico, gastrointestinale e renale. Alcune micotossine sono inoltre immunosoppressive e riducono la resistenza alle malattie infettive. Il monitoraggio della presenza di tali potenti tossine è eseguito da molti anni ormai sia tramite la applicazione di piani di autocontrollo da parte di allevatori e produttori di alimenti destinati agli animali, che con una serrata attività di campionamento ufficiale da parte delle autorità competenti nazionali in materia di sicurezza alimentare (Servizi Veterinari e N.A.S ). L’assenza di micotossine è una condizione anche essenziale per l’esportabilità dei prodotti di origine animale che caratterizzano il nostro Paese, per cui l’attenzione a tale argomento è altissima sia da parte dei produttori che da parte degli Organi di controllo”.
A suo parere il mais Ogm sarebbe una risposta reale per il contenimento delle aflatossine del mais?
“In un contesto di forte dibattito scientifico ed etico sull'utilizzo e coltivazione di mais Ogm, si inserisce anche l'aspetto legato alla resistenza di alcuni mais transgenici all'attacco della Piralide del mais (Ostrinia nubilalis), la cui larva è responsabile dei danni su cui si innesta poi, in particolari condizioni di temperatura e umidità, la proliferazione dei funghi responsabili della produzione di aflatossine. Nel mais transegenico, detto Mais Bt, per renderlo resistente agli insetti, si inserisce il gene Bt del batterio Bacillus thuringiensis. Tale batterio ha la proprietà di codificare una proteina (Bt) che è una prototossina, cioè diventa tossica solo per l'insetto Piralide. Questa proteina non è tossica per l’uomo o per gli animali, tant’è che da quarant’anni ne è consentito l’uso (in spray) in agricoltura biologica. Questa argomentazione viene fortemente contestata da chi ritiene che la presenza della Piralide sul mais sia un fattore importante ma non esclusivo tra quelli che portano alla formazione di micotossine sul mais. Infatti intervengono anche altri fattori meccanico/fisici legati alle modalità di gestione del mais, come l'irrigazione, la raccolta, l’essiccazione che non dipendono dalla presenza della Piralide sul mais. Inoltre alcuni studi portano a ritenere possibile un’evoluzione della Piralide in forme resistenti alla tossina prodotta dal Mais Bt. Il dibattito è forte e aperto. Certo non si può negare che l'uso di mais transgenico limiterebbe la presenza di Piralide ed eviterebbe forme di lotta chimica a questo parassita che son ancora molto applicate nel nostro Paese”.
Jessica Bianchi