Quando a soffrire è l’animale di casa, non si bada a spese. Ma i farmaci per i nostri amici a quattro zampe sono ben più salati di quelli destinati alla salute umana. Le case farmaceutiche, talvolta le stesse che producono omologhi umani, giustificano il divario di prezzo con la differenza di alcuni eccipienti e nella formulazione più adatta alla somministrazione veterinaria. Ma la forbice di prezzo è tale che, complice la crisi economica, un gran numero di proprietari di cani, gatti e non solo si procurano il corrispettivo umano per non rinunciare alle cure e risparmiare, senza essere “costretti”, come purtroppo già accade, ad abbandonare il proprio animale. Alla veterinaria carpigiana Elena Birba chiediamo:
Stessa molecola e stesse dosi, ma il farmaco per gli animali può costare anche cinque volte di più di quello destinato alle persone. Perché?
“Gli informatori farmaceutici giustificano la differenza di prezzo sostenendo che, ad esempio, il settore dei medicinali a uso umano ha a che fare con una sola specie, mentre quello dei farmaci a uso veterinario con più specie animali. Il solo fatto di registrare un farmaco per una specie invece che per due o tre già influisce di per sé sul prezzo, al punto che certe aziende registrano un farmaco per un’unica specie. La necessità di sviluppare medicinali per varie specie di destinazione, diverse taglie e formulazioni ad hoc fanno sì che i costi aumentino. Inoltre, nonostante il medicinale veterinario durante la fase di produzione debba seguire uno stringente processo regolatorio, rappresenta una porzione minima di mercato rispetto a quello dei medicinali a uso umano e ciò non consente di spalmare la spesa. A volte, quando è possibile, alcune aziende cercano di registrare i propri prodotti come mangimi complementari, un modo per abbattere i costi ma, purtroppo, non sempre questo è possibile”
Voi veterinari non potete prescrivere farmaci a uso umano se esiste l’omologo animale: quali le conseguenze sugli animali qualora il proprietario non possa permettersi di sostenere i prezzi delle cure?
“Noi siamo obbligati non solo a prescrivere farmaci a uso veterinario ma, specificamente, quelli registrati per curare una determinata patologia. Siamo quindi forzati a optare per un principio attivo che, alle volte, non sceglieremmo qualora non fossimo soggetti a vincoli. Un obbligo che, personalmente, trovo discutibile; credo infatti che ogni medico dovrebbe essere libero di somministrare il farmaco che ritiene più opportuno sulla base di numerosi parametri: dall’età alle condizioni dell’animale, dalle condizioni cliniche ai risultati degli esami…
In caso di epilessia, ad esempio, l’antiepilettico Pexion costa quaranta euro contro un principio attivo a uso umano che ne costa due. O, ancora, in caso di diabete canino, una confezione di Caninsulin costa circa 70 euro. Prezzi che incidono notevolmente sui bilanci delle famiglie”.
A pagare lo scotto dei farmaci d’oro sono soprattutto gli animali malati ma anche le tasche sempre più impoverite delle famiglie ne risentono. La crisi ha fatto diminuire le prestazioni veterinarie?
“Dalla mia esperienza posso affermare che le famiglie comuni sono disposte a fare grandi sacrifici pur di curare il proprio animale che, a tutti gli effetti, è considerato un membro effettivo della famiglia stessa.
Certamente sono in aumento le persone che, pur non rinunciando al farmaco, cercano di limitare gli esami diagnostici, magari diradando i controlli. Visite e vaccini si continuano a fare ma si opta per le scelte più economiche.
A noi clinici quindi spetta il compito di indicare gli esami diagnostici più opportuni e specifici per comprendere quale sia la radice del problema, salvaguardando la salute dei nostri animali senza però impattare troppo sulle tasche dei loro proprietari”.
Molti rinunciano alla prescrizione veterinaria e si procurano i medicinali in qualche altro modo. Spesso facendoselo prescrivere per sé o utilizzando i farmaci che sono in casa. Pratica in uso anche tra gli allevatori di animali da reddito. Quelli che poi mangiamo. Cosa comporta tale pratica per la salute umana?
“Pur non essendo una specialista in animali da reddito bensì in quelli da compagnia, posso affermare che l’azienda sanitaria locale esegue controlli molto scrupolosi per garantire il benessere degli animali e, al contempo, la massima sicurezza dei consumatori. Malgrado io abbia poca esperienza pratica in tal senso, dubito che gli allevatori locali ricorrano a terapie autogestite. Le eventuali ripercussioni sulla salute umana dipendono naturalmente dalla tipologia di farmaci data agli animali. La somministrazione di antibiotici negli allevamenti deve avvenire sotto stretto monitoraggio del medico veterinario onde evitare potenziali e gravi fenomeni di antibiotico resistenza e per garantire che nella carne non vi siano residui di farmaco. Una cosa è certa: curare un animale da reddito rappresenta una spesa ma, non dimentichiamoci che la morte di un capo, per l’allevatore, rappresenta prima di tutto una perdita economica, un mancato introito, motivo per il quale ritengo che sia l’allevatore in primis a voler curare adeguatamente ed efficacemente un capo e lui stesso sa che l’unico modo per farlo è quello di affidarsi al suo veterinario di riferimento”.
Jessica Bianchi