La movida carpigiana di ieri

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Quando all’inizio del 1500 il principe Alberto III Pio decise di fare dello spazio retrostante al ṡóogh dal balòun (oggi Piazzale Astolfo) una grande piazza, ornata da un lungo portico, certo non si immaginava che dopo cinque secoli avrebbe creato un problema di vivibilità di questo spazio immenso e praticamente ingestibile nella sua totalità. Un problema molto serio che le recenti amministrazioni hanno risolto bypassandolo e concentrandosi su quello splendido gioiellino che è diventata Piazza Garibaldi, alias Piazza delle Erbe o, più semplicemente, la Piasètta. Piazza dei Martiri, già Piazza Vittorio Emanuele, sembra essere diventata un peso insostenibile, dove l’horror vacui trionfa fra cronici nullafacenti, sparuti pensionati e stanlòun (sottanoni). Qui Aristotele incontrerebbe il fallimento della sua nota teoria: “la natura rifugge il vuoto” (natura abhorret a vacuo). Eppure non è stato così fino a pochi decenni fa. Mi è gradito e facile ricordare i supremi camerieri Gianni, Valerio e Alcide che, in giacca cremino chiaro, farfallino e pantalone scuro, prestavano un servizio inappuntabile al Bar Roma. Due ampie distese di sedie e tavolini erano a disposizione di un vasto pubblico che, nelle serate estive, gremiva l’ambito ritrovo. Dal banco della gelateria, “la” Nives (brava, bella e sfortunata ragazza) preparava dei gelati eccezionali e una panna montata che teneva in piedi il cucchiaino.
“Alcide per favore ci porta due spagnole (coppa di gelato di crema, nocciola, panna, amarene Fabbri e un biscottone piantato in cima). Grazie”.
Dopo pochi minuti, serviti come al Danieli di Venezia, l’inappuntabile Alcide Luppi arrivava col vassoio ricolmo delle delizie richieste con impazienza. A corredo c’era un bicchierino d’acqua che conteneva gli speciali cucchiaini a paletta, perfetti… per la degna consumazione di un prodotto di tale eccellente qualità.
Ma non c’era solo il Bar Roma in Piazza: scendendo in direzione sud avevamo il Bar Armagni, col titolare Gerry, il Bar Dorando e, infine, “il bar dei comunisti”… il Milano, sede di interminabili discussioni politiche e dove si appurava con puntigliosa precisione chi ghìis la tèesta più gròosa (chi avesse effettivamente la testa più grossa). Dall’altro lato c’era il Caffè Teatro con la famiglia Garzon (Danilo, Maria e Vittorio), divenuto negli Anni Ottanta punto interclassista di incontro della gioventù carpigiana e ritrovo preferito della mia compagnia piuttosto eterogenea. La cosiddetta “movida” nel secolo scorso era cosa tutto sommato semplice e coincideva con momenti particolari: le serate estive, la domenica pomeriggio e dalle 11 in poi alla mattina dei giorni festivi. Quelle mattine si usciva per prendere il giornale, per la messa (chi ci teneva) e per prendere il pacchettino di paste da Mailli, che venivano confezionate, dopo una fila di almeno 20 minuti, con l’apposita cordella. Alla fine di questa veniva creato, da abili e avvezze mani, un apposito anello per infilarci il dito medio. Se il dito non si segava, questo sistema consentiva un facile ed “equilibrato” trasporto a casa per il pranzo domenicale.
I carpigiani non si tiravano certo indietro da queste frequentazioni del centro e della Piazza. Il benessere, appena acquisto dopo un passato èd bulètta pèr dimònndi (povertà per molti), consentiva questi piccoli e piacevoli lussi. Nelle sere estive una passeggiata, un giro in bici, un film al Cinema estivo Italia (poi Super70), una fetta di cocomera da Benci nel Parco.
Io e gli amici, invece, passavamo le sere in modo attivo e dinamico, vagabondando da un posto all’altro, facendo garini con le moto, caricando sventurate ragazze. Era bello arrivare in Piazza con auto e moto, parcheggiare comodamente davanti al bar, senza oppressive isole pedonali. Chi aveva un mezzo nuovo era contento di esibirlo e di mettersi in mostra, sempre con la mai sopita brama di conoscere e affascinare nuove e belle fanciulle. Scopo ultimo, e sempre tranquillamente confessato, quando mestamente disatteso per i drammatici rifiuti ostinati delle controparti.
Dèela via primma ch a sìidi di ruṡgòun! Primma ch a paasa la stagiòun! diceva rabbioso qualcuno, dopo l’ennesima cocente delusione (Datela via prima che diventiate dei torsoli mangiucchiati di mela, prima che passi la stagione).
Rimpianti? Un po’. Noi ragazzi degli Anni Settanta abbiamo vissuto forse il periodo più fortunato e bello dell’intera storia italiana. Ci siamo divertiti tutti, senza guerre e con un po’ di soldi. Oggi, guardando la nostra grande piazza deserta, a vìin un bèel magòun, viene un bel po’ di amarezza, soprattutto d’inverno, proprio quando chi la vuole chiusa, se ne guarda bene di uscire di casa e ne sta bello caldo sul divano, cullandosi nella soddisfazione di pensare e dire: Ah… Ma che bella la Piazza chiusa: è dei pedoni. Pròopria ‘na bèela sudisfasiòun! Va mò là!
Mauro D’Orazi