Raccontare questo episodio adesso si può, e ci si può persino scherzare: il primo giorno di ritiro a Urbino un fulmine colpì il campo, e la distanza tra un gran spavento e qualcosa di molto peggio fu di pochi centimetri. Ci sono due spiegazioni: una è che le grandi vicende degli uomini sono circolari. E quindi questa, come tutte le grandi storie poteva cominciare solo nel momento in cui poteva davvero finire. L’altra è che il Destino aveva già deciso per chi tifare.
Ma questa non è solo una storia di Destino. E non è un miracolo, non è una favola. E’ esattamente il contrario, perché la trama è amalgamata dai leganti opposti. Qualcosa di mistico c’è, ma c’è soprattutto molta scienza; pochissimo di casuale e tantissimo pragmatismo; e poi, tra i protagonisti, nessun santo, ma un paio di fuoriclasse.
Ecco, i fuoriclasse li riconosci da tre sintomi incontrovertibili. Il primo è che conquistano i luoghi in modi mai visti. Se esiste una tradizione, la magnificano. Se non esiste, la fabbricano.
Il secondo è che non inventano sogni, immaginano la realtà e poi la realizzano. E’ il vaticinio dei predestinati. Te lo dicono molto prima del tempo ciò che faranno, e te lo spiegano con una dovizia di particolari, una disinvoltura e un disincanto che t’accascia: o sei come loro, e allora capisci tutto e subito, oppure rimani inchiodato al suolo. Il terzo è che costruiscono capolavori che gli somigliano. Perché l’arte di vincere, in fondo, comincia dal riviversi.
Più di tutti, Stefano Bonacini ritrova completamente se stesso nel Carpi. Un laboratorio di meritocrazia dove si alza sempre l’asticella e non ci si dà mai un traguardo, onde evitare che diventi un limite. Il 16 luglio 2013, esattamente un mese dopo l’impresa di Lecce, andai a trovarlo in ufficio e non ebbi nemmeno bisogno di fargli la domanda: fu lui stesso a pregarmi di scrivere che il mirino era puntato sulla Serie A. Entro tre anni. Non è stato di parola. Ci è arrivato in netto anticipo. Ha cominciato a vendere camicie a bordo di un furgoncino dismesso delle Poste. E quando descriveva ai suoi clienti il futuro impero Gaudì, nessuno riusciva a prenderlo sul serio. Snobbarlo è stato il favore più grande che gli sia mai stato fatto. E così i suoi giocatori: i più economici e sottovalutati di sempre da quando il calcio è televisivo. Ritorniamo per un attimo nell’improbabile ritiro di Urbino: quando vidi arrivare la squadra dall’albergo a bordo di un vecchio autobus di linea, pensai di essere vittima di una candid camera. Invece non solo era tutto vero, ma era anche tutto perfettamente chiaro. Era lo stesso inizio della stessa scalata dello stesso artefice.
Cristiano Giuntoli ha trovato il Sacro Graal: un modello sostenibile a patto che lo alimenti una fame insostenibile. Ed è diventato ciò che voleva essere, a forza di pedalare e di costringere gli avversari a pedalare pensando. Questo gli insegnò ì sù nonno, che era il barista di Agliana da cui passavano tutti i ciclisti più importanti per capire dove e perché avevano perso il Giro d’Italia. Non chiamiamolo più né sportivo, né generale: è un direttore totale. Durante la scorsa stagione, fu anche più esplicito di Bonacini. Ci ritrovammo davanti al solito caffè: io macchiato, lui deca perché ogni tanto deve diluire tutta quell’adrenalina che lo rende la più travolgente e insuperabile macchina di calcio attualmente in circolazione in Italia. Ragionavamo sulla crisi di risultati su cui, di lì a poco, sarebbe caduto mister Vecchi. Io molto abbacchiato, lui nervoso ma come sempre lucido. Io temevo che le colonne del tempio stessero cedendo. Lui, deglutito il sorso, incendiò tutte le mie perplessità con lo sguardo e poi con la solita immagine che trasferisce il concetto all’istante: “Sta attento. Questa è una squadra forte e questo ciclo non è finito. Quest’anno ci fermiamo alle porte di Parigi. Il prossimo entriamo e svaligiamo tutto il Louvre”.
Fabrizio Castori invece ha programmato un’alchimia. Arrivò avvolto in una nebbia di scetticismo talmente fitta che quasi non si riusciva a guardarlo negli occhi. Ma la diradò con poco: bastarono un paio di sbuffi in marchigiano stretto, che non è banalmente il suo accento, bensì il ritmo della sua umanità. Articolata e spigolosa finché si vuole, come le meraviglie gotiche della sua San Severino. Però meravigliosamente entusiasta, e dunque morbida. Per finire di conquistarci si dette una missione molto precisa: “non chiederemo alla gente di venire allo stadio, e allo stadio di trascinarci. Saremo noi a trascinare tutti”. Martedì, a 10 minuti dalla Serie A, tutto il Cabassi era per lui. Non uno che avesse in mente un coro diverso. E al fischio finale s’è fatto a gara per andarlo a prendere. Appena è scattata l’invasione, è partita una 4×100 di massa per sollevarlo in trionfo.
E’ successo davvero, lui e i suoi ragazzi l’hanno fatta veramente grossa. Hanno realizzato il loro sogno e contemporaneamente anche l’incubo di Lotito, “er monno che se rovescia, er sistema che sarta”. Hanno fatto impazzire i giorni, e prim’ancora hanno fatto impazzire tutti quelli che ne aspettavano il crollo. Hanno giocato un calcio sovversivo e transepocale, che è un fluire di cinismo tra le ondate barbariche degli Unni e lo strategismo napoleonico. Sono stati essenziali, tradizionali e allo stesso tempo moderni, di un eclettismo perfidamente verticale. Hanno spinto il vecchio controgioco all’italiana a un’intensità europea e contemporanea. Hanno continuamente cambiato pelle senza perdere mai l’identità. Hanno stravinto due campionati in uno, l’andata in attacco e il ritorno in difesa. E mentre combinavano tutto questo si sono tolti il gusto di circondare tutto il calcio, costringerlo alla resa e obbligarlo a guardare l’uomo che sbarca sulla luna. Hanno fatto qualcosa che va molto oltre lo sport. Hanno dato una speranza a crede che la ricchezza non si misuri in denaro, bensì in idee e merito. Hanno vinto, insomma, per chi mette il sacrificio e la passione davanti a tutto.
E’ stata senza dubbio questa lezione che ha spinto tutti i carpigiani a radunarsi nella notte più magica tra tutte quelle mai vissute nel nostro piccolo confetto conficcato nello stomaco della Pianura Padana. E siccome le grandi vicende dei grandi uomini sono circolari, questa storia finisce esattamente dove è cominciata. All’inizio degli inizi, circa un secolo fa. Quando ancora non si chiamava Piazza Martiri, ma portava il nome di Re Vittorio Emanuele. E quando di fronte a quel palco non c’era la filiale dell’Unicredit, ma il Caffè degli Svizzeri della famiglia Fanconi. Dove un benedetto giorno, finite le lezioni del collegio di Trogen il giovane Adolfo vi rientrò e vi ritrovò i soliti amici. Aveva un regalo per loro: un pallone e delle regole per giocarlo coi piedi. Ovvio, aveva capito subito che sarebbe stato una buona idea. Certo, aveva intuito immediatamente che avrebbe fatto tanta strada e unito tanta gente. Ma non avrebbe mai potuto immaginare che quello stesso pallone sarebbe rimbalzato così lontano. Fino a portare con sé la città tra le prime 20 del Paese, nel gran ballo del calcio italiano. Così in alto, nemmeno il falcone di Re Astolfo aveva mai volato.
E’ per questo, che tutto ciò che abbiamo visto e vissuto lo racconteremo a lungo. E non riusciremo mai a farlo senza commuoverci. Perché a un certo punto le parole finiscono, e servono le lacrime per spiegare cosa significa trovarsi NELLA LEGGENDA!
Enrico Gualtieri